Il valore legale del titolo di studio non piace al vicepremier Salvini, mentre il ministro Bussetti ha rimandato la questione. L’idea però non è affatto nuova e avrebbe delle conseguenze
Il vicepremier Matteo Salvini è ritornato sul valore legale del titolo di studio, un tema che va affrontato per procedere con una riforma della scuola, un mondo già in fermento e foriero di cambiamenti. Gli fa eco il ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca Marco Bussetti che non esclude la necessità di affrontare l’argomento, demandandolo però in coda alla riforma della scuola.
Cos’è il valore legale del titolo di studio
La spiegazione breve, sintetizzata da Wikipedia, parla di “un certificato che attesta l’insieme delle conoscenze e competenze apprese nel corso di studi“. In pratica, senza nulla togliere alla sontuosità della definizione, è il valore intrinseco a tenere banco: le istituzioni che possono emettere tali titoli – quindi tutte le scuole pubbliche e private dalle elementari fino ai cicli di studi superiori – si differenziano proprio in virtù del valore che il titolo rilasciato rappresenta. Per chi volesse approfondire l’argomento in profondità, c’è un buon documento stilato dall’Ufficio scolastico regionale per il Veneto.
Cosa succederebbe
Una modifica al valore legale del titolo di studio avrebbe un impatto diretto sulle scuole medesime, frequentate anche in virtù dei certificati di studio rilasciati. Cadrebbe il modello attuale di concorrenza tra istituti o, meglio, si creerebbe una concorrenza più sana con offerte formative differenziate e di crescente qualità. Inoltre, il ministro Bussetti identifica un percorso prioritario, ovvero “delle modifiche che creino maggiore semplicità, certezze e percorsi mirati per arrivare ad ottenere quello di cui la scuola ha bisogno, per il bene degli studenti“.
Il valore legale del titolo di studio è giudice e giuria delle prestazioni qualitative degli istituti scolastici. Ponendo sullo stesso piano qualsiasi titolo conseguito, gli studenti potrebbero lasciare le scuole più selettive in favore di quelle più morbide. Lo stesso vale per i cicli di formazione più costosi a vantaggio di quelli meno costosi, per lo più interdetti alle famiglie meno abbienti. Si mostrebbe con un rinnovato splendore il fascino per le università telematiche e tutte queste conseguenze avrebbero una ricaduta sull’economia, la cifra d’affari realizzata grazie agli studenti fuori sede, che calerebbero di numero.
Con la fine del valore legale, ogni licenza, diploma o laurea sarebbe equivalente.
Il modello giusto forse c’è già
In Friuli un cambiamento simile è già in atto, solo che non è messo a fuoco dalle istituzioni, perché non perfettamente visibile. La volontà marcata di diventare la Silicon Valley italiana viene da un passato recente con un Pil in netta crescita, e si è realizzata fondendo artigianato e nuove tecnologie, con rilancio dell’export e dell’occupazione. Per fare qualche esempio, l’Istituto professionale per l’industria e artigianato (Ipsia) Galileo Galilei di Castelfranco Veneto ha lanciato un programma di formazione sui droni, registrando un boom delle iscrizioni del 40%, con accessi anche dall’estero. L’intenzione è quella di portare queste innovazioni nei percorsi di laurea triennali. Alla luce di queste considerazioni, il valore legale dei titoli di studio ha davvero ancora senso?
Le opinioni dei protagonisti
La Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) non ha un’opinione in materia e questo elemento può diventare centrale in tutto il dibattito che si sta sviluppando (e che non è affatto nuovo). Si mostra possibilista – o comunque non refrattaria – come se fosse un tema che non la riguarda troppo.
Il coordinamento universitario Link, movimento di studenti che si professa indipendente, è invece contrario, convinto che una modifica del valore legale del titolo di studio non coincida con una crescente qualità della formazione. Al contrario, sostiene il movimento, si creerebbero atenei di prima classe e altri di serie B.
I sindacati si sono pronunciati sul tema anni fa, quando il mondo del lavoro aveva già avviato una metamorfosi ma ancora lungi dall’essere accostabile a quella odierna. La Federazione italiana lavoratori trasporti (Filt/Cgil) si è persino contraddetta, prima sostenendo che mettere in concorrenza le università sia inutile e poi asserendo che toccherebbe allo stato creare una lista delle migliori università al fine di assumere chi si è distinto nei migliori atenei.
L’opinione più importante è forse quella di Confindustria, che vede con favore l’adozione di strumenti di valutazione dei percorsi di studio per assegnarvi un valore ponderato, misurabile e confrontabile.
Il dibattito negli anni
L’origine della discussione è da ricondurre ai concorsi pubblici, dove si vuole vietare riferimenti e requisiti legati al voto di laurea. Il primo a dibattere di questa necessità è stato, nel 1947, l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi. In tempi più recenti – siamo nel 2010 – il tema è stato riproposto dal deputato Fabio Garagnani (Pdl), mentre nel 2011 è stato il turno di Girolamo Sirchia (fino al 2005 ministro della Salute nella seconda legislatura berlusconiana). Nel 2012 se ne è occupato anche il governo Monti, e l’anno seguente è diventato caro al pentastellato Carlo Sibilia. Oggi se ne torna a parlare, di nuovo su iniziativa del M5s e della Lega.
Ciò basta a dimostrare che quasi tutto lo spettro politico si è trovato a fare pressioni in tal senso, prima o dopo.
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