A pochi giorni dalla terribile notizia delle due ragazzine indiane di 12 e 14 anni prima stuprate e poi impiccate a Katra Saadatganj, città del distretto di Badaun nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, Nuova Delhi è costretta a guardare in faccia la realtà di un Paese che, a dispetto dell’inasprimento delle leggi, non è pronto a lasciarsi alle spalle un suo risvolto culturale malato e barbaro. Nella più grande democrazia del mondo, fresca di faraoniche elezioni che hanno visto la vittoria storica del controverso Narendra Modi sull’egemonico partito della famiglia Gandhi, capita infatti che un ministro dello stato del Madhya Pradesh, Babulal Gaur (membro del Partito Popolare Indiano, lo stesso del neo premier indiano), dichiari che lo stupro è “un crimine sociale che dipende dagli uomini e dalle donne”, che il reato di violenza sessuale può definirsi tale solo ed esclusivamente quando viene denunciato e, concludendo, che “alcune volte è giusto, altre volte è sbagliato”.
Commenti, questi, che sono un vero e proprio schiaffo in faccia alle molte persone che in questi giorni, così come in passato, hanno manifestato contro un aspetto tristemente diffuso in India, tanto che alcuni studi hanno riportato la terrificante media di uno stupro ogni 22 minuti. Eppure non si tratta certo di una novità. Durante l’ultimo appuntamento elettorale, infatti, un altro politico,Mulayam Singh Yadav – verso cui Gaur ha espresso simpatia -, aveva detto la sua riguardo al problema, criticando apertamente la pena di morte per i colpevoli di violenza di gruppo: “i ragazzi fanno degli errori: verranno impiccati per uno stupro?”, dichiarò il leader del Samajwadi, partito capolista nello stato dell’Uttar Pradesh. Ovviamente, leggendo le parole sia di Yadav che di Gaur, la reazione a caldo non può che essere di sdegno, indignazione, rabbia: determinati concetti, infatti, dovrebbero completamente sparire dalla bocca, e in particolar modo dalla testa, prima di poter avviare un serio e costruttivo processo che porti l’India fuori dalla palude (per quanto concerne il capitolo stupri, in questo caso) in cui si trova.
Tuttavia, anche l’eccessiva semplificazione che tende ad essere utilizzata quando vengono raccontati episodi simili a quanto successo settimana scorsa non aiuta, anzi. La pubblicazione su tutti i media della foto delle due ragazzine impiccate ad un albero di mango fa certo accapponare la pelle – giustamente non poche associazioni per i Diritti Umani hanno denunciato questa diffusione come irrispettosa -, inorridisce e per qualche secondo risveglia i sensi dal torpore cui sono abituati dalla violenza quotidiana cui assistiamo, ma non aiuta a capire, lasciando nell’ombra aspetti forse più complicati ma che sono il vero fulcro della questione. Scrivere, come hanno fatto in molti, che due agenti della polizia di Katra sono stati sospesi per connivenza, dipinge sicuramente un risvolto macabro, ma che ancora una volta rimane monco di un background che è invece di natura fondamentale. E il retroscena, nel caso dell’India, ha un nome ben preciso: la divisione della società in caste e la relativa e conseguente discriminazione tra le stesse.
In questo senso, non stupisce che le principali vittime di stupri siano donne (o ragazze, o peggio ancora bambine) provenienti dalla casta dei Dalit, meglio conosciuta come la comunità degli ‘intoccabili’ che sta al gradino più basso della piramide sociale indiana. In passato, infatti, le violenze su quest’ultimi erano pressoché una regola per i più ‘blasonati’ proprietari terrieri. In seguito, l’avanzare degli anni e l’urbanizzazione sempre più vasta, la mobilità sociale e le maggiori protezioni legali, hanno contribuito a frenare quest’emorragia discriminatoria, non riuscendo però a bloccarla del tutto. Si tenga in considerazione, infatti, che secondo uno studio relativo allo stato dell’Uttar Pradesh nell’anno 2007, condotto dal People’s Union for Civil Liberties, nel 90% dei casi di stupro segnalati (non va dimenticato che, allora come oggi, molti episodi non vengono denunciati) le vittime erano donne Dalit.
E come non è difficile immaginare, i colpevoli delle violenze, quando sono di casta superiore, riescono nella maggior parte dei casi ad evitare il carcere o altre pene, questo perché possono contare su di una difesa accettata e particolarmente diffusa: gli uomini di classi sociali più alte non sfiorano nemmeno i Dalit, per paura di poter rimanere ‘inquinati’. Eppure, il sistema stesso delle caste – in concorso di colpa con la brutalità degli uomini -, porta a determinati atteggiamenti, creduti (e troppo spesso giudicati) normali. Con la piramide, infatti, si è costituito una sorta di feudalesimo che auto-conferisce a persone di casta superiore ai Dalit una sorta di diritto malato, una specie di (si passi l’analogia) ius primae noctis che può essere sfruttato come e quando si vuole, restando totalmente impuniti. Inoltre, certi episodi sono anche direttamente correlabili a faide interne al sistema sociale, come nel caso della lotta tra Dalit (i più bassi) e Jats (non certo ‘nobili’, ma comunque ritenuti migliori degli ‘intoccabili’).
Tornando ora al caso delle ragazzine, cerchiamo di analizzarlo alla luce di quanto fin’ora scritto. Ad esempio, può essere che non tutti siano a conoscenza del fatto che il padre di una delle due si è rivolto il martedì alla polizia denunciando la scomparsa della figlioletta e della nipote. Ma invece che sentirsi richiedere la descrizione delle due, o da quanto si fossero perse le loro tracce, all’uomo è stato brutalmente chiesto: “a quale casta appartieni?” e, una volta rivelata l’appartenenza ad una classe sociale bassa, a detta del padre gli agenti lo avrebbero deriso rifiutandosi di fare alcunché. Com’è andata in seguito, precisamente la mattina del 28 maggio, è ormai cosa nota. Ciò che però colpisce particolarmente, è l’incidenza che l’appartenenza di casta sembra aver avuto nel caso. I fratelli fino a questo momento accusati dello stupro e dell’omicidio, infatti, sono Yadav – Pappu Yadav, Awadhesh Yadav e Urvesh Yadav -, stessa classe di cui fa parte Ram Vilas Yadav, capo della polizia locale. E, come se non bastasse, anche i due poliziotti coinvolti, quelli che sono stati sospesi, sono di casta Yadav – la stessa cui appartiene Mulayam Singh, il politico che condannò la pena di morte nei casi di stupro, definiti “errori” da ragazzi.
Questo aspetto della vicenda, ovviamente, rimanda ad una società attualmente non in grado di risolvere il problema delle violenze sessuali, dove la connivenza troppo spesso provata tra polizia, magistratura e criminali, spadroneggia. Proprio per questo motivo, come già detto, l’inasprimento della legge – più che corretto -, con l’introduzione della pena di morte – pena assolutamente inutile per chi scrive -, non è di per se sufficiente a bloccare definitivamente il fenomeno. Ad esempio, una strada percorribile potrebbe essere quella di integrare le nuove norme con una modifica sostanziale e strutturale dell’Atto per la prevenzione delle atrocità – alcune, come una maggiore protezione dei testimoni e l’istituzione di tribunali speciali sono al vaglio del Parlamento -, disposizione introdotta nel 1989 con l’obiettivo di porre fine alla violenza e alla discriminazione di casta. Tuttavia, ad oggi, il numero di condanne ai sensi di questa legge è piuttosto bassa, tanto che in molti casi viene completamente bypassata negando di fatto giustizia alle vittima. Inoltre, sarebbe sicuramente buona cosa se le autorità, a partire dalla politica, condannassero senza se e senza ma le violenze. Facendo si, con il tempo, ovviamente, che non possano essere più sollevati alibi o scusanti come nei casi di Gaur e Yadav, e che, soprattutto, non si ripetano più episodi brutali e violenti come per le due ragazzine di Katra Saadatganj.
Fonte -Ibtimes
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