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I cambiamenti climatici aumentano i rischi di malattie negli animali (e di conseguenza nell’uomo)

By   /  1 Dicembre 2020  /  No Comments

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Una nuova ricerca mette in evidenza i pericoli connessi al disallineamento delle temperature: i patogeni si sviluppano di più nelle zone glaciali che si scaldano e in quelle temperate che si raffreddano

I cambiamenti climatici possono causare l’aumento del rischio di malattie infettive per molte specie di animali. E questo potrebbe aumentare le possibilità di uno spillover, il salto di specie, che trasferisce le patologie anche all’essere umano, come avvenuto nel caso dell’ultimo coronavirus. A sottolinearlo è un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science e realizzato da studiosi dell’Università di Notre Dame, dell’Università della Florida e dell’Università del Wisconsin-Madison. Uno dei punti focali della ricerca, che ha preso in considerazione i risultati di 383 studi già realizzati e un dataset che combina 7.346 popolazioni di fauna selvatica e 2.021 combinazioni ospite/parassita è «disallineamento climatico», una condizione che perché permette lo sviluppo di patogeni normalmente poco resistenti alle temperature estreme o comunque diverse da quelle in cui abitualmente proliferano. «Così — spiega Jason Rohr, dell’Università di Notre Dame, citato dall’agenzia Agi — il rischio di contrarre malattie infettive tra specie che si sono adattate ai climi glaciali, come ad esempio gli orsi polari, aumenta con l’incremento della temperatura, mentre per le specie che vivono in ambienti più caldi il pericolo è legato all’abbassamento della stessa». In pratica, gli organismi più piccoli, come appunto gli agenti patogeni, sembrano in grado di sopportare intervalli di temperature più ampi e più facilmente rispetto agli esseri più complessi, che invece faticano ad adattarsi. La tendenza, secondo gli autori dello studio, sarebbe analoga sia nell’ambiente terrestre sia in quello acquatico.

«La pandemia da coronavirus — aggiunge Olivia Santiago, dell’Università della Florida — ha evidenziato la necessità di comprendere il modo in cui la diffusione, la gravità e la distribuzione delle malattie infettive tra gli animali possano evolvere. La maggior parte degli eventi epidemici ha origine dalla selvaggina, per cui è fondamentale attuare strategie di mitigazione per ridurre il cambiamento climatico». Gli effetti di questa tendenza nel medio e lungo periodo si tradurranno in una diversa distribuzione delle malattie. Sostanzialmente, suggerisce ancora Rohr, «il riscaldamento globale probabilmente allontanerà le malattie infettive dall’equatore, con una variazione nelle possibilità di infezioni nelle regioni temperate e più fredde del pianeta. Le simulazioni indicano infatti che gli agenti patogeni potrebbero prosperare meglio nei luoghi più freddi. Per i prossimi studi esploreremo la possibilità che esistano modelli simili per le malattie umane e vegetali, in modo da valutare se questo possa avere o meno implicazioni sulla sicurezza alimentare». 

La correlazione tra i cambiamenti climatici e la diffusione delle epidemie era stata anche al centro dell’ultimo report dell’Ipbes, la Piattaforma intergovernativa per la biodiversità, un organismo scientifico al massimo livello che svolge attività di divulgazione e di consulenza per le istituzioni internazionali, dal quale emergeva un dato inquietante: in natura, sostanzialmente tra mammiferi e volatili, sarebbero presenti ancora circa un milione e 700 mila virus ancora da catalogare e almeno la metà di questi sarebbe potenzialmente trasmissibile agli esseri umani. Riducendo la distanza che separa gli umani dagli animali selvatici, per esempio per effetto della deforestazione — dovuta sia all’attività umana di disboscamento, sia all’effetto dei cambiamenti climatici —, la possibilità di un incrocio risulta notevolmente aumentata. La perdita di biodiversità, dovuta a sua volta all’insieme dei cambiamenti climatici (per esempio lo scioglimento dei ghiacciai che cambia la salinità delle acque marine, devia le correnti tradizionali e provoca l’inondazione di ampie fasce costiere), contribuisce a ridurre il numero di specie animali che i virus possono incontrare e che fanno potenzialmente da barriera tra gli esseri umani e i selvatici che li ospitano. Creando maggiori occasioni di contatto, come accaduto con il Sars-Cov-2 che è quasi certamente passato all’uomo in un wet market orientale (quello ormai ben noto di Wuhan), il salto di specie viene fortemente agevolato.

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