Nel 1994, mentre gli italiani erano imbambolati da Italia-Bulgaria, scontro valevole per la finale dei mondiali statunitensi, il governo Berlusconi approvò il cosiddetto decreto Biondi, che aveva lo scopo di far tornare a casa i vari (presunti) corrotti e corruttori di Tangentopoli, ed evitare che continuassero a cinguettare delle loro varie ruberie ai magistrati. Nel 2014 il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha fatto qualcosa di simile (in più piccola scala) durante Italia-Costa Rica, ma il risultato è sempre lo stesso: una presa in giro ai danni dei consumatori, con tanto di beffa finale. Ma andiamo con ordine.
Dopo diversi mesi (anni) di querelle e pressioni da parte della SIAE guidata da Gino Paoli, il ministro Franceschini ha approvato il decreto che adegua le tariffe per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi previste dalla legge sul diritto d’autore, il cosiddetto equo compenso (che per la cronaca non è né equo né compenso). Detto altrimenti, se un supporto elettronico può immagazzinare un brano musicale, un film o altro, la legge sul diritto d’autore sottintende che tale supporto verrà utilizzato per scopi per i quali non si è pagato, pertanto è obbligatorio corrispondere qualcosa all’inefficiente (e talvolta assurdo) monopolista SIAE, la quale poi redistribuisce il ricavato agli autori (in modo tra l’altro molto iniquo).
Insomma, anche se compro una penna USB per metterci esclusivamente le foto dei miei alluci, dovrò comunque pagare come se ci copiassi sopra una canzone di Gino Paoli. Entrambe le situazioni sono estremamente improbabili, ma immagino che a Paoli non interessi granché: basta che sul suo conto in banca arrivino i miei soldi e quelli degli altri contribuenti.
Si tratta di aumenti che arrivano anche al 500 per cento, e che farà aumentare il costo dei dispositivi elettronici, dagli smartphone ai tablet agli hard-disk. Ad esempio sugli smartphone il balzello salirà da 0,9 a 4 euro, in totale la SIAE incasserà cento milioni di euro in più. Il comunicato del ministero presenta anche un confronto con quanto pagato in Francia e Germania, ma si guarda bene dal pubblicare una media europea per tutti i 23 Paesi UE in cui si applica l’equo compenso: forse perché in Francia e Germania ci sono le tariffe più alte e si vuole addolcire la pillola (o meglio, la supposta)? Ricordiamo poi che nel 2012, ovvero con le tariffe precedenti, i consumatori italiani hanno pagato più di tutti gli altri Paesi, a parte la Francia.
Ma la presa in giro peggiore non è questa: l’aumento, pardon, l’adeguamento del balzello è previsto dalla legge, per cui quello di Franceschini era un atto dovuto per legge (beh, in teoria poteva anche lasciare ferme le tariffe, o aumentarle meno, ma sorvoliamo su questi dettagli). Dura lex, scema lex, sed lex.
La cosa peggiore di tutta questa storia è il tentativo di Franceschini di turlupinare gli italiani, stipandoli come polli di un ripieno di menzogne spudorate. Due in particolare sono le frasi del ministro che denotano questa volontà.
La prima è una frase tecnicamente corretta, una delle tante che la neolingua del governo Renzi ha già utilizzato per evitare di chiamare le cose col proprio nome, che però tenta di nascondere la sostanza: Franceschini ha ragione a dire che non si tratta di una nuova tassa (perché si tratta di una tassa prevista da una legge vecchia di un decennio, per cui, tecnicamente, non è nuova), tuttavia le tasse aumentano, eccome, a beneficio di un istituto (la SIAE), il cui monopolio si sta rivelando sempre più inefficiente, come a più riprese evidenziato dall’avvocato Guido Scorza (e non solo). Il ministro usi pure tutte le locuzioni retoriche che vuole, ma si tratta di un aumento delle tasse.
La seconda menzogna, più grave, riguarda il destinatario dell’aumento della tassa, ovvero chi dovrà materialmente pagarla. Il ministro Franceschini su Twitter ha le idee piuttosto chiare a riguardo:
Peccato però che ciò sia abbondantemente falso o, nella migliore delle ipotesi, non certo: anche se la tassa deve essere materialmente pagata dal produttore, nulla vieta a quest’ultimo di traslarla in tutto o in parte al consumatore. Un aumento delle tasse comporta una diminuzione del margine per il produttore, il quale, in alcuni, non rari, casi, potrebbe non essere disposto ad accettarlo (potrebbe rischiare di finire in perdita, chiudere, licenziare), e decidere quindi di aumentare il prezzo di vendita.
Alcuni produttori con una gestione particolare del prezzo (ad esempio Apple) potrebbero anche decidere per aumenti superiori all’equo compenso (ovvero se il prezzo di un dispositivo era 639 euro, lo potrebbero alzare a 649, invece che a 644), poiché i maniaci della mela morsicata sono meno sensibili al prezzo.
Insomma, è falso che la tassa gravi sui produttori e non sui consumatori. Un altro esempio renderà ancora più chiaro il busillis: anche le varie accise su benzina, alcool e sigarette sono tecnicamente a carico dei produttori, ma chissà come mai a sentire il dolore sono i portafogli di automobilisti, bevitori e fumatori. Forse perché non esiste una cosa come il cosiddetto “prezzo fisso” di cui straparla il ministro Franceschini (evidentemente un altro seguace del radicalmente falso “modello superfisso” che continua a fare danni in questo Paese), poiché in un mercato più o meno concorrenziale è il mercato a decidere il prezzo. D’altro canto se il prezzo è fisso perché fissare la tassa a 4 euro? Meglio 600, tanto il prezzo del tablet resterà fermo, anzi fisso, per motivi che magari il ministro ci spiegherà una volta passata l’evidente sbornia da Barbera.
Detto altrimenti, gli effetti di un intervento statale in un mercato non sono esattamente prevedibili (anzi, spesso è il contrario). Insomma, delle due l’una: o il ministro Franceschini è profondamente ignorante di come funzioni l’economia nelle sue più elementari forme oppure lo sa, ma ha deciso di mentire spudoratamente ai suoi cari elettori e amministrati. Quale che sia il caso, il sempreterno ministro Franceschini ha dimostrato di non essere degno di essere un ministro di un governo vagamente serio.
Purtroppo non è il caso di questo governo: il ministro dell’economia Padoan, poche ore dopo la firma del suo collega Franceschini che aumentava del 500 per cento la tassa sul copyright (così la definisce Apple, ad esempio), ribadiva l’urgenza di abbassare le tasse. Forse era il caso che i due si parlassero per evitare di sembrare degli imbecilli ipocriti.
Stupidità e/o ipocrisia, d’altro canto, sembrano essere una costante nel governo del Paese che, intanto, ha pure deciso di bloccare il contratto del pubblico impiego dal 2010 fino al 2020. Pagare Gino Paoli e i suoi colleghi di un carrozzone in stato vegetativo tenuto in vita dallo Stato è un’emergenza, adeguare gli stipendi agli statali, invece, può attendere.
Fonte -IBT-
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