Prospettive. Quando sei un semplice candidato alle primarie o solo ‘aspirante leader’ e inneggi alla rottamazione più spinta, è facile sostenere concetti come questo: “Rafforzare l’immunità? Sarebbe un errore clamoroso, non abbiamo bisogno di dare garanzie in più ai parlamentari, ma di farli diventare più normali”.
Era il febbraio del 2013 e Matteo Renzi dava una mano a Bersani nella campagna elettorale in vista delle Politiche. Silvio Berlusconi era appena uscito con una dichiarazione delle sue: “Se avrò la maggioranza bisogna assolutamente introdurre l’immunità parlamentare”. L’ex premier intendeva fare un salto indietro di 20 anni, alle famigerate autorizzazioni a procedere pre-tangentopoli, puntualmente respinte dai colleghi. L’articolo 68 della Costituzione venne modificato nell’ottobre 1993, eliminando l’autorizzazione a procedere, ma conservando per deputati e senatori lo scudo di non poter essere arrestati (fino a sentenza passata in giudicato), perquisiti o intercettati senza il voto favorevole della Camera di appartenenza. Berlusconi voleva riallargare queste prerogative e Renzi considerava l’idea un “errore clamoroso” e aggiungeva: “non abbiamo bisogno di dare garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare più normali”.
La prima bozza della riforma del Senato, con i nuovi membri di Palazzo Madama non più eletti ma nominati da assemblee di sindaci, consigli regionali o direttamente dal Capo dello Stato, escludeva i membri da questa tutela: era uno dei pochi passaggi veramente positivi dell’intera riforma. Ora ecco la nuova bozza, frutto dell’intesa a tre PD-Forza Italia-Lega Nord: lo scudo parlamentare verrà esteso anche ai senatori non più eletti, se non per fare i sindaci e i consiglieri regionali. Un passo indietro anche rispetto all’attuale versione del Senato. Tutto pur di approvare la riforma epocale su cui Renzi insiste da 6 mesi.
Il Presidente del Consiglio non è nuovo a questi repentini cambi di rotta, spesso dettati da calcoli politici. Criticava aspramente Alfano dopo il caso Shalabayeva ma lo ha confermato al Viminale quando si è preso Palazzo Chigi, perchè senza il NCD non aveva la maggioranza al Senato. Non voleva prendere il posto di Letta senza passare dalle Elezioni e sappiamo com’è andata a finire. Ha vinto le primarie al grido di “mai più larghe intese” e con le larghe intese cambierà addirittura la Costituzione. Nel dicembre 2012 era a favore dell’amnistia, a ottobre 2013 considerava il provvedimento di clemenza “non serio” perché l’opinione pubblicare era contraria. Sul tema dell’immigrazione è passato dall’essere un sostenitore dello ius sanguinis (settembre 2012) a proporre lo ius soli (giugno 2013). Durante la prima campagna per le primarie aprì le porte al presidenzialismo, salvo cambiare idea l’estate successiva quando i ‘saggi’ di Letta e Napolitano riscrivevano la Carta con un Berlusconi ancora non pregiudicato.
Solo gli stolti non cambiano mai idea, ma così si entra in ‘modalità Berlusconi’.
“E’ una cosa che lascia esterrefatti – spiega al FattoQuotidiano.it Sandra Zampa, deputata, vice-presidente del Partito Democratico – stamattina quando ho letto i giornali sono rimasta sconvolta: ho voluto controllare di persona che questa cosa fosse effettivamente accaduta. E purtroppo è tutto vero”. Prodiana di ferro, storica collaboratrice del professore ed eletta alla Camera nel 2008, la Zampa non nasconde il proprio disappunto: “Vorrei tanto capire come è nata questa idea. Secondo me, il governo non sapeva dell’emendamento. In ogni caso è un atto fortemente provocatorio: non posso pensare che due politici esperti come la Finocchiaro e Calderoli non sappiano cosa vuol dire lanciare nella discussione un elemento del genere. Non è certo una cosa che passa inosservata”. Quale lettura ne dà le Zampa? “Finocchiaro e Calderoli, senatori, ci hanno provato: è un tentativo per mantenere in vita un privilegio che di questi tempi e con la riforma che stiamo realizzando non ha più ragione di esistere”.
Con gli scandali Expo e Mose che riverberano la propria onda lunga sulla discussione politica, le poche righe firmate dai relatori reintroducono una garanzia a tutela dei politici su cui la maggioranza aveva già discusso e che aveva deciso di escludere: “Renzi l’ha messo in chiaro fin dal primo minuto: i senatori non devono essere eletti, né pagati. Abbiamo preso una direzione nuova e adesso faccio fatica a spiegarmi perché prima si crei un Senato con ruolo e funzioni nuovi e poi per i suoi membri si restaurino privilegi che appartengono al passato”. Un dietrofront che anche l’opinione pubblica rischia di non capire: “Affermare la necessità dell’immunità fa parte di una tradizione politica di lunga data: una parte dei parlamentari più anziani resta convinto che questa tutela abbia un senso. Io, da quando sono in Parlamento, non mi sono mai imbattuta in casi in cui l’immunità sia stata utile: anzi, è sempre stata un intralcio sulla strada della trasparenza. Bisogna capire che i tempi sono cambiati: noi dobbiamo rispondere ai cittadini, esausti di fronte agli scandali di cui i politici sono protagonisti. Intendiamoci: quello della politica non è peggiore o più colpevole di altri settori della società. Ma in questo momento dobbiamo dare un segnale forte di discontinuità e questo emendamento va in direzione nettamente contraria”. Una cosa è certa: “Questa roba dovrà arrivare anche da noi alla Camera – conclude la vice-presidente del Pd – e non credo proprio che riuscirà a passare“.
Critiche anche da Giuseppe Civati. “Cosa comporterebbe questo? – scrive il capo della fronda interna al Pd in un post dal titolo ‘Il sindaco immune‘ pubblicato sul suo blog – che un sindaco nei confronti del quale si procedesse per fatti commessi durante il suo mandato amministrativo (tristemente noti) potrebbe usufruire, in quanto senatore, delle immunità di cui all’articolo 68 (commi 2 e 3). Non proprio un aiuto al contrasto ai numerosi episodi di corruzione cui purtroppo assistiamo (anche) a livello locale“. Poi Civati allarga lo spettro della critica: “Si tratta, naturalmente, solo di uno dei problemi del doppio incarico. Che mentre la Francia ha appena eliminato (non a caso) l’Italia vuole introdurre (peraltro dopo che alla fine della scorsa legislatura era stata sancita – a seguito dell’intervento della Corte costituzionale – l’incompatibilità tra la carica parlamentare e quella di sindaco)”. Infine, l’auspicio: “Chissà se questa è l’ultima bozza che ci viene presentata: in comune con le precedenti ha numerose e palesi contraddizioni. Speriamo soltanto che non sia l’ultima versione“, conclude Civati.
In base all’accordo maggioranza-FI-Lega, l’Assemblea di Palazzo Madama sarà composta da 100 senatori, anzi di 95 più 5: i primi eletti dai consigli regionali in rappresentanza di Regioni e Comuni, i secondi nominati dal presidente della Repubblica. Tra i 95 “territoriali” 74 sono scelti tra i consiglieri regionali, gli altri 21 tra i sindaci. In Lombardia, Sardegna e Campania (soltanto per citare i casi più recenti) negli ultimi mesi decine di consiglieri sono finiti sotto inchiesta per malversazioni varie. Ma la lista dei casi scoppiati negli ultimissimi anni è lunghissima. Il futuro Senato rischia quindi di essere formato da politici provenienti da una classe dirigente protagonista di scandali di ogni tipo, che una volta a Palazzo Madama beneficerebbe dell’immunità. Riguardo i sindaci, poi, l’emendamento 2.1000 elimina un altro elemento di oggettività: se nel testo del governo “il Senato delle Autonomie è composto (…) dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma” (…) e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione”, nelle modifiche proposte dal tandem Finocchiaro-Calderoli si legge che “ventuno senatori sono eletti dai Consigli regionali (…) fra i Sindaci dei comuni della Regione”. Una ulteriore elezione, un ulteriore passaggio che rischia di rendere opaco il processo di reclutamento.
Nel Pd iniziano a levarsi le prime voci di dissenso. Bisognerebbe “dare un segnale equiparando davanti alla giustizia i ‘senatori regionali’ ai normali cittadini – commenta Stefano Pedica, membro della direzione Pd – dopo gli ultimi scandali, tra cui quello del Mose, non si capisce perché dovrebbe essere reintrodotta una norma che non prevede l’arresto di un senatore regionale se non dopo il via libera di un Senato depotenziato nella funzione. Spero in un futuro senato composto da 100 onesti e non altro. Chi sbaglia paga e la regola deve valere per tutti. Mi auguro che Renzi intervenga presto su questa imbarazzante decisione che lascia perplessi tutti, ministro Boschi compresa”. Che, a margine di un seminario a Massa Marittima (Grosseto), ha commentato laconica: “E’ una proposta dei relatori, vedremo che accadrà in seguito”.
Ma c’è anche chi nell’emendamento non vede nulla di strano. Danilo Leva, già responsabile Giustizia del Pd, minimizza: “Non ci vedo un elemento di stravaganza, l’emendamento aggiunge semplicemente un nuovo elemento alla discussione che verrà fatta in Aula”. A destare dubbi è la dinamica con cui l’immunità per i senatori è tornata nel testo della riforma che l’aveva esclusa, ovvero attraverso un emendamento: “Non ci sono retropensieri e soprattutto non credo sia questo l’elemento più importante di cui discutere riguardo la riforma del Senato”. Non sarà il più importante, ma la questione resta sostanziale: un Senato depotenziato nei fatti (non sarà più titolare di un rapporto di fiducia con il governo, non approverà più leggi, almeno in prima istanza) continua a godere delle stesse garanzie della camera che conserverà le prerogative più importanti: “Il depotenziamento è nei fatti – continua Leva – ma Palazzo Madama continuerà a svolgere in ogni caso funzioni di alto livello istituzionale. Inoltre non si tratta di un privilegio per pochi, ma di una garanzia per l’intera istituzione. Ovviamente non siamo parlando di un’immunità totale, ma di una garanzia che esiste già ed è sottoposta al parere dell’Aula: basta guardare alla conclusione del caso Genovese, la Camera ha votato per il suo arresto“.
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