“Le emozioni espresse dagli amici sui social network influenzano il nostro stesso umore“, scrive un team di ricercatori di Facebook, della University of California e della Cornell in uno studio appena pubblicato su PNAS. È il cosiddetto “contagio emotivo“: non nuovo, nemmeno nei suoi aspetti 2.0. Ma confermato per la prima volta, argomentano gli autori, a livello sperimentale e su larga scala (i soggetti studiati sono 689 mila) sulle reti sociali. Al punto di consentire loro di sostenere che su Facebook “si possono indurre le persone a provare le stesse emozioni a loro insaputa“, anche – e qui sta la novità – in assenza di indizi non verbali e senza interazione diretta.
L’esperimento, si legge, è consistito nel manipolare segretamente l’entità dell’esposizione dei soggetti studiati a “espressioni di emozioni nel loro News Feed” di Facebook – un metodo che sta facendo molto discutere dal punto di vista etico, specie perché la sua giustificazione sembra essere che “Facebook apparentemente manipola il News Feed in continuazione“, dice Susan Fiske della stessa rivista PNAS.
L’obiettivo? Verificare se l’esposizione a determinate emozioni li porti ad alterare le loro abitudini di pubblicazione, e “in particolare se l’esposizione a contenuti emozionali induca gli individui a pubblicare contenuti coerenti con l’esposizione – testando dunque se l’esposizione a espressioni verbali affettive conduca a espressioni verbali simili“, ossia appunto a “una forma di contagio emotivo“.
Per riuscirci, Adam Kramer e colleghi hanno condotto due esperimenti, tra l’11 e il 18 gennaio 2012: in un primo, hanno ridotto l’esposizione dei soggetti (inclusi nel gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo) a contenuti positivi immessi dai loro “amici” nel flusso di notizie di Facebook; in un secondo, hanno fatto lo stesso con i contenuti negativi. “Positivo” e “negativo” sono stati decisi in base alla definizione fornita da un software, il Linguistic Inquiry and Word Count. Le parole analizzate a questo modo sono state oltre 122 milioni (di cui quattro positive e 1,8 negative) da tre milioni di post.
Risultato? Il primo è che “omettere contenuti emozionali ha ridotto la quantità di parole successivamente prodotte, sia quando a essere ridotti sono stati i termini negativi che quando lo sono stati i positivi“, anche se l’effetto appare più consistente nel secondo caso – un risultato congruente con alcuni studi precedenti. In altre parole, post a elevato contenuto emotivo innescano più reazioni – come insegna quanto sappiamo delle dinamiche della viralità sui social media. Meno emozioni danno invece luogo a un “effetto ritiro“: lo dimostrerebbe la minore espressività esibita dai soggetti studiati nei giorni seguenti all’esperimento, suggeriscono i ricercatori.
Il secondo è il “contagio emotivo” vero e proprio: “per le persone a cui sono stati ridotti i contenuti positivi nel News Feed, una maggiore percentuale delle parole negli status update è stata negativa e una minore positiva. Quando a essere ridotta è stata la negatività“, osservano gli studiosi, “si è verificato l’opposto“. Il contrario di ciò che argomentano i sostenitori dell’idea che post positivi su Facebook possano indurre, al contrario, a maggiore negatività per via della “comparazione sociale“: banalmente, tu stai meglio di me, quindi io sto peggio.
Il grafico pubblicato nello studio mostra chiaramente come il numero medio di parole positive prodotte aumenti, nel gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, quando è ridotta l’esposizione a termini negativamente connotati; e viceversa diminuisca diminuendo l’esposizione a termini positivamente connotati.
La manipolazione ha prodotto effetti modesti, ammettono i ricercatori. E già in passato non sono mancate le polemiche – ripetutesi anche in questo caso – sull’accuratezza e la bontà dei metodi statistici adottati: trattandosi di correlazioni e non di cause, la ragione degli scostamenti potrebbe risiedere altrove. Ma gli indizi che i ricercatori potrebbero essere sulla buona strada simoltiplicano (anche nell’ambito della partecipazione politica), e in ogni caso “anche piccoli effetti possono avere ampie conseguenze aggregate“, replicano gli autori: si pensi all’importanza del contagio emotivo sulle scelte finanziarie, per esempio – specie quando azioni e reazioni avvengono sempre più in tempo reale.
Come ricorda William Hughes, Kramer – membro del Data Science Team di Facebook e da tempo al lavoro sull’argomento – hasostenuto in passato di aver voluto fare parte del progetto di Mark Zuckerberg perché “costituisce il più ampio studio sul campo della storia“. Visti i risultati che quello studio sta producendo (e visto, notano alcuni, che è stato in parte finanziato dall’esercito USA), è bene anche i suoi utenti imparino a considerarlo tale, e a comprendere quali conseguenze ne derivino anche per la loro vita emotiva. Dopotutto, questo studio non fa che fornire una dimostrazione pratica, concretissima, dell’influenza degli algoritmi – come quello di Facebook – sulle scelte e l’espressione umana. Ed è questo, credo, il suo principale motivo di interesse.
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