Un bar, due persone. Sul tavolo una Coca Cola, una Fanta, un po’ di patatine Pringles e un cornetto Algida. Una scena come tante in Italia e nel mondo. In realtà quelle due persone stanno consumando quattro prodotti alimentari che sono controllati solamente da dieci multinazionali. Secondo Oxfam International, una confederazione di 17 organizzazioni non governative che si batte per risolvere il problema della fame nel mondo, la gran parte dei prodotti che arriva negli scaffali dei supermercati di tutto il pianeta appartiene a 10 multinazionali: Associated British Foods (ABF), Coca-Cola, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Mondelez Internatonal (ex Kraft Foods), Nestlé, PepsiCo e Unilever. Sono queste dunque le Big 10, ovvero le 10 Grandi Sorelle che controllano tutta la filiera della produzione alimentare mondiale e che Oxfam spiega benissimo nell’infografico qui pubblicato.
Il dossier della confederazione rientra nella campagna Scopri il Marchio (Behind the Brands), che si pone l’obiettivo di confrontare le politiche delle varie aziende e di sfidarle a competere per la miglior performance ambientale e sociale. Nell’ultimo secolo, le potenti aziende del settore alimentare hanno avuto un successo commerciale senza precedenti, accrescendo i loro profitti. Ciò è avvenuto mentre i milioni di persone che forniscono i beni necessari alla produzione – terra, acqua e lavoro – hanno affrontato crescenti difficoltà. Oggi queste persone e le loro comunità, insieme a una crescente fetta di consumatori, chiedono sempre di più alle aziende di rivedere il loro modello di business. In questo rapporto, Oxfam valuta le politiche sociali e ambientali delle 10 Grandi Sorelle del settore alimentare, esortandole ad intraprendere tutte le misure necessarie per dare vita ad un sistema alimentare globale più equo. Ad ognuna di queste aziende “Scopri il Marchio” ha dato un voto, esaminando sette aree cruciali per il raggiungimento di una produzione agricola sostenibile, ma storicamente trascurate dall’industria alimentare: donne, produttori agricoli di piccola scala, braccianti agricoli, acqua, terra, cambiamento climatico e trasparenza. Secondo la classifica, sono Nestlé e Unilever a registrare la performance migliore al momento, avendo sviluppato e reso pubbliche il numero maggiore di policies volte a fronteggiare i rischi sociali e ambientali lungo la catena di produzione. All’opposto, ABF e Kellogg’s hanno adottato poche policies volte a mitigare l’impatto delle loro attività sui produttori e sulle comunità. Ma la situazione non è comunque positiva. In Pakistan, le comunità rurali affermano che la Nestlé stia imbottigliando e vendendo acqua vicino a dei villaggi che non hanno accesso ad acqua potabile. Nel 2009, la Kraft (oggi Mondelez) è stata accusata di acquistare carne bovina da fornitori brasiliani implicati nel disboscamento delle foreste pluviali dell’Amazzonia per far pascolare il bestiame. E oggi, Coca-Cola si trova a dover affrontare le accuse di sfruttamento del lavoro minorile nella sua catena di produzione nelle Filippine. Purtroppo, non si tratta di anomalie. Per più di 100 anni le aziende più potenti del settore alimentare si sono servite di terre e lavoro a basso costo per produrre al minimo dei costi e con elevati profitti, spesso a danno dell’ambiente e delle comunità locali in varie parti del mondo. Tutto questo ha contribuito all’attuale crisi del sistema alimentare. Ed è dal punto di vista economico e del profitto che il sistema delle 10 Grandi Sorelle è impressionante: si stima che le entrate collettive giornaliere siano superiori a 1,1 miliardi di dollari, con un giro d’affari di 7.000 miliardi, ovvero il 10% dell’economia globale. I dati sono eloquenti anche nel settore dell’inquinamento: le Big 10 hanno immesso nell’atmosfera 263,7 milioni di tonnellate di gas serra nel 2013, e se fossero una nazione del mondo sarebbero al venticinquesimo posto nella classifica dei paesi più inquinanti.
La pagella dimostra comunque chiaramente che tutte le 10 multinazionali , incluse quelle con voti più alti, non hanno usato il loro enorme potere per contribuire alla creazione di un sistema alimentare più equo. In alcuni casi queste aziende compromettono la sicurezza alimentare e le opportunità economiche per i più poveri, rendendo ancora più affamati coloro che già soffrono la fame. Infine il dossier rivela che la responsabilità sociale e i programmi di sostenibilità che le aziende ad oggi hanno realizzato sono generalmente poco focalizzati, ad esempio, sulla riduzione dei consumi di acqua o sulla formazione delle donne che lavorano nei campi. Questi programmi non riescono ad affrontare le cause profonde della povertà in quanto le aziende non sono dotate di adeguate politiche volte ad orientare le 4 attività delle loro catene di approvvigionamento.
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