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TTIP: Europa verso il fondamentalismo mercantile. Stavolta gli indios siamo noi

By   /  20 Maggio 2014  /  No Comments

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Si chiama Ttip ma è uguale al Nafta, il trattato di libero scambio contro cui cominciò l’insurrezione zapatista. Ora gli States ci provano con l’Europa

Marina Zenobio – La scorsa settimana, a Bruxelles, nel corso di una manifestazione indetta dal movimento Blockupy contro l’European Business Summit che si svolgeva al Palais d’Egmont, la polizia belga ha fermato circa 250 manifestanti, in pratica un fermo di massa. Si è parlato giustamente dei fermati, di chi fossero (ce ne erano anche di italiani), quale area politica rappresentassero eccetera eccetera, ma vale la pena, a mio avviso, approfondire sul perché fossero lì. In quella splendida dimora che è il Palais d’Egmont, una volta della nobiltà belga, si è parlato del Transatlantic Trade and Investment o TTIP, in italiano “Trattato di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra Europa e Stati Uniti”.

Vi consiglio di mandare a memoria la sigla TTIP, il suo significato e di seguire gli sviluppi della campagna che vuole venga bloccato (http://stop-ttip-italia.net/), perché si tratta di uno degli accordi commerciali più vasti e decisivi della storia, che farà sembrare una inezia il NAFTA, il trattato di libero scambio entrato in vigore nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico che pure portò, in quest’ultimo paese, alla rivolta zapatista dell’EZLN.

Il TTIP riguarderà 800 milioni di persone e due potenze (USA e UE) che insieme rappresentano oltre il 40% del PIL mondiale e la terza parte degli interscambi commerciali sempre a livello mondiale. In sintesi stanno costruendo un gigantesco mercato transatlantico regolato da norme comuni tra i due soci che, anche se appartenenti entrambi alla sfera occidentale, non funzionano né con gli stessi valori né con la stessa giurisprudenza.

Il TTIP punta a creare norme convergenti nel campo sociale, tecnico, ambientale, nel campo della sicurezza, della soluzione di controversie, l’accesso ai farmaci, l’educazione, la giustizia, il commercio, il codice di lavoro, la protezione dei dati digitali e la regolamentazione della finanza. Ma le basi su cui si fisseranno le regole comuni del trattato di libero commercio tra Washington e Europa si esplicitano nei due vizi principali del trattato stesso: il primo è che si sta negoziando alle spalle dell’opinione pubblica; il secondo è che la sua filosofia prevede che le legislazioni dei due blocchi rispondano a norme di libero scambio stabilite dalle grandi company europee e nordamericane.

«Qualcosa deve sostituire i governi e il potere privato mi sembra l’entità adeguata per farlo». Queste parole, affidate da David Rockefeller al “Newsweek” il 1 febbraio 1999, forniscono la chiave per capire che il TTIP è solo l’ultima tappa, in ordine di tempo, dell’ormai trentennale marcia della globalizzazione neoliberista, quella che il politologo belga Raoul Marc Jennar, nel suo infuocato saggio contro il TTIP, chiama “Le grande marché transatlantique. La menace sur les peuples d’Europe” (La grande marcia transatlantica. La minaccia sui popoli d’Europa), il cui obiettivo è di conferire alle imprese private il potere decisionale su norme sociali, sanitarie, alimentari, ambientali, culturali e tecniche. In sintesi, scrive Jenner, le grandi multinazionali andranno a rimpiazzare gli Stati con buona pace dei diritti umani, sociali e di cittadinanza.

Uno degli aspetti più controversi del trattato è quello sul “Regolamento delle Controversie tra Investitori e Stato” (in inglese, ISDS- Investor State Dispute Settlement). Stiamo parlando di un meccanismo di arbitrato privato tra gli investitori e gli Stati che si sostituirebbe alle giurisdizioni esistenti, permettendo così agli investitori privati di liberarsi da tutte le leggi, di aggirare le decisioni per loro ingombranti e di consacrare la privatizzazione del potere legislativo. Gli Stati e i Parlamenti non potranno nulla contro queste sentenze.

Il regolamento ISDS già esiste, è un organismo dipendente dalla Banca Mondiale con sede a Washington e accreditato, appunto, a decidere sulle controversie e operativo nei trattatati di libero commercio già sottoscritti dagli Usa con altri paesi. Vediamo due esempi di come funziona: nel 2010 il ISDS ha condannato l’Uruguay e l’Australia a pagare alla multinazionale Philip Morris un indennizzo di diversi miliardi di dollari perché questi due paesi avevano lanciato una campagna contro il tabacco; nel 2012 anche la OXY (Occidental Petroleum Comporation) ha fatto ricorso a questo stesso sistema di arbitraggio per pretendere dall’Ecuador due milioni di dollari perché il presidente ecuadoriano, Rafael Correa, aveva deciso di interrompere la collaborazione con l’impresa petrolifera accusa di irresponsabilità ambientale e violazione dei diritti degli indios.

Dei dettagli degli oltre quaranta articoli che conformano il TTIP si sa poco, è negoziato nel massimo riserbo, senza che i deputati europei o nazionali abbiano accesso ai termini concreti di ciò che la Commissione, su mandato (segreto) degli Stati membri, discute con gli Usa. Quel poco che è riuscito a trapelare, però, è abbastanza per capire che dietro i segreti del negoziato del TTIP si gioca molto più che il commercio. Si gioca un modo di relazionarsi con gli altri, un modello per costruire una società, un modello di economia che rischia di assoggettarsi definitivamente al modello nordamericano, quel modello che il premio Nobel Joseph Stiglitz ha definito «il fondamentalismo mercantile».

ttip

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