Giovedì 12 giugno il Brasile alzerà il sipario sui Mondiali FIFA 2014, i secondi nella storia della competizione a giocarsi nella patria stessa del calcio. Ad aprire le danze sarà chiaramente la squadra di casa, impegnata a San Paolo con la Croazia. Tuttavia il fischio di inizio dell’evento è risuonato ormai un anno fa, quando a giugno i primi manifestanti – per lo più giovani, senza tetto e operai della ‘working class’ brasiliana – hanno cominciato a riempire le piazze del Paese.
Perché se da una parte l’evento è e deve essere spettacolo, divertimento e passione sfrenata, il rovescio della medaglia appare decisamente più oscuro e meno gioioso, come contratto in una smorfia di dolore. Che si guardi agli sgomberi delle favelas con il loro carico di degrado, criminalità e povertà – spaccato da nascondere sotto il tappeto per la durata del mondiale -, che si guardi agli arresti, alle repressioni, ai feriti e ai morti, o al costo de la ‘Copa’ – teoricamente finanziata privatamente ma alla prova dei fatti pagata dalle casse pubbliche brasiliane -, appare chiaro come il periodo dal 12 giugno al 13 luglio non abbia connotazione meramente calcistica, sfociando per contro nella difficile realtà di un Paese in via di sviluppo ma ancora largamente al palo per quanto riguarda le differenze sociali.
Aspetto, questo, che trova conferma nella natura stessa delle proteste e delle manifestazioni che, passo a passo, hanno accompagnato la preparazione all’evento. La spesa per l’organizzazione del mondiale, stimata secondo i dati rilasciati l’anno scorso dal governo in 15,1 miliardi di dollari, oltre che ricadere per l’85% sul pubblico poggia i suoi pesanti piedi su tagli ingenti alle spese e ai programmi destinati ai meno abbienti e alla classe operaia brasiliana.
Insomma, gli inevitabili investimenti faraonici per la costruzione o il ‘restauro’ di stadi e strutture sportive hanno spazzato via tutto il resto, costringendo le comunità più povere e degradate a fare un due più due tanto veritiero quanto spiazzante: con i soldi spesi per i Mondiali FIFA, il governo avrebbe potuto migliorare, e non di poco, molti aspetti che affliggono il Paese. Invece, si è preferito nascondere al risolvere, reprimere all’ascoltare. Il tutto, ovviamente, nel nome dello spettacolo.
E sempre nel segno del divertimento – degli altri, categoria dove rientrano turisti e tifosi, fonte di guadagno per lo Stato ma, c’è da scommetterci, non per chi lo Stato dovrebbe rappresentare -, le forze dell’ordine si sono fatte più violente, mentre per cancellare letteralmente le manifestazioni, gli scioperi e le proteste agli agenti di polizia sono stati affiancati uomini dell’Esercito. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, intitolato ‘Usano la strategia della paura: protegge il diritto di protesta in Brasile’, proprio i comparti della sicurezza si stanno rendendo colpevoli di un uso indiscriminato e massiccio di proiettili di gomma, di gas lacrimogeni, il tutto corredato da una serie di arresti arbitrari e dall’abuso di leggi e norme per giustificare il fermo di attivisti e manifestanti, copione che molto probabilmente verrà seguito anche durante le 64 partite, dove nulla, per nessun motivo, deve andare storto.
Eppure, guardando ai giorni più recenti, tanto le proteste del 15 maggio – mobilitazioni non indifferenti che hanno coinvolto 12 città del Paese – quanto lo sciopero delle metro venerdì a San Paolo – 209 chilometri di ingorgo stradale in una città già caotica di per se -, senza dimenticare le varie manifestazioni organizzate dai movimenti per il diritto alla casa e da ‘Ocupa Copa’ (sorta di Occupy i Mondiali), cui hanno preso parte anche indigeni che ai proiettili e lacrimogeni della polizia rispondevano con le frecce, dimostrano come in molti siano pronti a sfidare il pugno duro del governo, sfruttando la copertura mediatica del mondiale per cercare di trovare una certa risonanza che, attualmente, non c’è.
Proprio questa, infatti, è la sfida più grande per quei brasiliani che, probabilmente, durante la competizione non vestiranno i colori della nazionale inneggiando a Neymar. La loro lotta, senza quartiere, ha come obiettivo di portare al centro del dibattito l’accesso al cibo, la scuola – secondo i manifestanti con gli investimenti usati per sistemare lo storico Maracana se ne sarebbero potute costruire 200 -, un aumento dei salari e, in generale, misure e provvedimenti a tutela di quella popolazione lasciata ai margini anche quando non c’è un evento di interesse mondiale in ballo.
Qualora dovessero vincere questa battaglia, la loro vittoria non si misurerà in base a quale capitano di quale nazionale alzerà la coppa al cielo, ma sulla consapevolezza (o forse sarebbe meglio scrivere speranza) che il mondo si accorga che il Brasile non è solo, come nel migliore dei cliché, samba e calcio.
Fonte -IBT- Video
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