Fatta la legge, trovato l’inganno. Meno di un mese fa, entrava in vigore la nuova disciplina delle dimissioni telematiche per il lavoratore, introdotta dal Jobs act. Attraverso la procedura online, si voleva eliminare il fenomeno delle dimissioni in bianco, cioè quando l’azienda fa firmare al dipendente la rinuncia al posto del lavoro in anticipo, al momento dell’assunzione. E solo più avanti, l’imprenditore completa il documento con la data desiderata, in modo da liberarsi del lavoratore quando vuole. Ora, la Cgil Umbria segnala i primi casi di raggiro della legge: il datore di lavoro impone al dipendente, sotto ricatto, di consegnargli il proprio codice pin Inps, necessario per accedere alla procedura telematica. In questo modo, l’azienda può compilare le dimissioni al posto del lavoratore: secondo il sindacato, si torna così al vecchio problema delle dimissioni in bianco.
“Ci sono già arrivate numerose segnalazioni – raccontano Vasco Cajarelli, segretario regionale Cgil Umbria, e Francesco Cirlincione, ufficio giuridico della Filcams Cgil di Perugia – da parte di lavoratori ai quali è stato richiesto in modo ricattatorio (“me li dai o ti trasferisco”, ad esempio) di fornire all’azienda i dati necessari per rassegnare (finte) dimissioni”. In particolare, spiega Cajarelli, al centro di buona parte delle segnalazioni c’è una catena internazionale nel settore del commercio: “Il raggiro è facile come bere un bicchiere d’acqua. L’azienda ha chiesto ai lavoratori il codice pin Inps. In caso di rifiuto, scattava il ricatto: non ti assumo, non ti trasformo il contratto a tempo indeterminato, ti trasferisco in una sede lontana“. Cirlincione aggiunge altri dettagli: “C’è l’imprenditore che chiede ai lavoratori la delega per ritirare il codice pin all’Inps. E c’è quello che promette una riassunzione, ma intanto vuole sempre avere il codice per provvedere lui stesso alle dimissioni dei dipendenti. Così facendo, si torna al vecchio sistema delle dimissioni in bianco”. La Cgil Umbria fa sapere che denuncerà ogni caso di cui sarà messa a conoscenza al servizio ispettivo della Direzione territoriale del lavoro. “Non possiamo essere sicuri di chi sia davanti al computer a compilare le dimissioni – conclude Cajarelli – Possiamo essere certi della loro autenticità solo quando sono certificate da un soggetto terzo, quali i patronati, gli enti bilaterali, il sindacato“.
Il nuovo sistema delle dimissioni telematiche è entrato in vigore lo scorso 12 marzo. La nuova disciplina interessa i lavoratori subordinati del settore privato, con qualche eccezione, e riguarda tanto le dimissioni quanto la risoluzione consensuale del rapporto tra lavoratore e impresa. Il meccanismo prevede due vie per presentare la rinuncia al posto di lavoro. A inviare il modulo, come detto, può essere un soggetto terzo oppure direttamente il dipendente. In quest’ultimo caso, l’interessato deve accedere a un’apposita sezione del sito del ministero del Lavoro attraverso il proprio codice pin dell’Inps. A quel punto, si potrà procedere inserendo i dati relativi al lavoratore, all’azienda, al rapporto di lavoro e alla comunicazione di recesso. Infine, il modulo sarà inviato via mail all’impresa e alla direzione territoriale del lavoro. Il lavoratore ha sette giorni di tempo per ripensarci e revocare le dimissioni.
Ma già al momento dell’entrata in vigore, il nuovo meccanismo aveva suscitato la perplessità degli addetti ai lavori, in particolare della Fondazione studi consulenti del lavoro. I professionisti avevano calcolato i costi dell’operazione nei casi in cui il lavoratore abbandoni il posto di lavoro senza completare l’iter delle dimissioni. Secondo questi calcoli, lo Stato può spendere fino a 1,5 miliardi di euro in due anni per pagare la Naspi a questi dipendenti, le imprese pagheranno 105 milioni di euro per i ticket licenziamenti, mentre i cittadini potranno sborsare circa 10,5 milioni per i servizi resi dai patronati.
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