Una rete di radiotelescopi ha raccolto la prima immagine dei dintorni di un buco nero: è un anello di fuoco che avvolge il punto di non ritorno. In perfetto accordo con la relatività di Einstein.
Il mostro non ha occhi e non ha capelli. Ha solo una bocca grande, come il lupo delle favole. Ma può mangiare molto, molto di più: di stelle come il Sole, senza batter ciglio, ne fa un solo boccone. Smascherarlo, però, non è facile, perché il gigante è nero su sfondo nero, perfettamente mimetizzato nell’habitat in cui si muove, il cielo notturno. Ora gli scienziati del progetto BlackHoleCam – dopo anni di lavoro – ne hanno finalmente svelato la forma, annunciando quella che è stata definita la “foto del secolo”, la prima immagine diretta della fascia più interna che avvolge un buco nero.
LA SCOPERTA. La foto appena rilasciata ritrae il buco nero M87, che ha una massa di 6,5 miliardi di volte quella del Sole e si trova nel centro dell’omonima galassia, a 55 milioni di anni luce da noi nella costellazione della Vergine. Questo gigante è particolarmente attivo, perché ingurgita un’enorme quantità di materia. La foto che lo sorprende durante il pasto illustra i dati raccolti nell’aprile del 2017 dai radiotelescopi dell’Event Horizon Telescope (EHT), un consorzio di osservatori situati in ogni angolo del pianeta.
«Con questa esperimento abbiamo dimostrato che i buchi neri esistono, e che possono essere studiati con osservazioni astronomiche», spiega a Focus Ciriaco Goddi, segretario del consiglio scientifico di EHT. «Provare l’esistenza di questi corpi celesti riveste un’importanza fondamentale nella nostra concezione dell’universo. Infatti, i buchi neri sono una delle previsioni principali della teoria della Relatività generale di Einstein».
Nel mirino degli astronomi c’è anche Sagittarius A*, il buco nero gigante (4 milione di volte il Sole) situato al centro della Via Lattea, la nostra galassia. Ma Sagittarius A* è meno attivo di M87, ed è quindi più difficile coglierlo sul fatto, cioè nel momento in cui si attiva perché inghiotte qualcosa.
VIAGGIO SENZA RITORNO. I buchi neri sono i corpi celesti più estremi che si possano immaginare. Ingurgitano tutto ciò che varca il loro confine, compresa la luce. Per questo appaiono come sfere nere, delimitate da una superficie definita orizzonte degli eventi. «È una sorta di membrana a “senso unico”, dove la materia e la luce possono entrare ma non uscire, a causa dell’intensissima forza gravitazionale», spiega Goddi.
L’esistenza dei buchi neri fu inizialmente dedotta da una soluzione delle equazioni della teoria della Relatività generale di Einstein, che fu pubblicata per la prima volta dal fisico tedesco Karl Schwarzschild nel 1916. Il termine “buco nero” fu poi reso popolare dal fisico statunitense John Archibald Wheeler negli anni ’60, mentre il primo di questi oggetti identificato nell’universo è stato, all’inizio degli anni ’70, Cygnus X-1, a 6 mila anni luce da noi nella costellazione del Cigno.
DI TANTI TIPI. Oggi si conoscono decine di buchi neri, che vengono classificati a seconda delle loro dimensioni. In particolare ci sono:
1. i buchi neri stellari come Cygnus X-1, che hanno massa di una decina di volte il Sole e si formano tipicamente quando una stella di grandi dimensioni – al termine della sua vita – esplode generando una supernova (al centro resta un buco nero);
2. i buchi neri giganti al centro delle galassie, come Sagittarius A* (per la Via Lattea) e M87 (per la galassia M87);
3. i buchi neri intermedi, di 30-60 masse solari, scoperti recentemente dagli osservatori di onde gravitazionali (la loro origine non è stata ancora del tutto chiarita);
4. gli ipotetici buchi neri primordiali: mini buchi neri che, secondo alcune teorie, si sarebbero formati nelle prime fasi del Big Bang, e che potrebbero spiegare in parte il mistero della massa mancante dell’universo.
COME SI OSSERVANO. Proprio perché sono così scuri, i buchi neri sono difficili da osservare. Le uniche osservazioni dirette, in realtà, sono quelle basate sulle onde gravitazionali LIGO (negli Usa) e Virgo (in Italia), che però riescono ad “ascoltare” – ad oggi – solo gli eventi più violenti, mentre sono insensibili al resto.
Con gli strumenti “tradizionali” (sensibili, cioè, alle onde elettromagnetiche come la luce) è invece possibile osservare le radiazioni emesse dalla materia che viene inghiottita in un buco nero, e che di solito forma un vortice incandescente di polveri e gas che si avvolge a spirale verso il centro. In questo viaggio senza ritorno, la materia viene scaldata a temperature elevatissime, per cui emette radiazioni energetiche come raggi X e ultravioletti.
Nei pressi dell’orizzonte degli eventi, però, lo spazio e il tempo sono distorti a tal punto che la radiazione emessa dalla materia incandescente viene “stirata” e cambia natura: la sua lunghezza d’onda aumenta e l’energia diminuisce. Gli UV e i raggi X si trasformano in onde radio. Per questo, per osservare i contorni del buco nero, è necessario usare i radiotelescopi. In particolare, si usa una lunghezza d’onda che risulta conveniente per le osservazioni, perché consente di ottenere un’immagine più nitida. «Quello che si vede è una “buca” di luce, circondata da un anello luminoso», spiega Goddi. «È proprio questa l’ombra che abbiamo fotografato».
Questa immagine è importante, perché – secondo la Relatività generale – è deformata dalla gravità (un effetto noto come “lente gravitazionale”). Inoltre viene influenzata dalla rotazione del buco nero e dalla sua eventuale carica elettrica. Insomma, a saperla guardare, l’ombra fornisce una misura diretta della massa, del diametro, della rotazione ed, eventualmente, della carica elettrica del buco nero. In pratica, ne costituisce un identikit.
DIMENSIONI PLANETARIE. I buchi neri più grandi e attivi sono molto lontani da noi, e quindi ci appaiono di piccole dimensioni. Distinguere la loro ombra richiede una risoluzione molto maggiore di quella che può garantire, da solo, il migliore radiotelescopio sulla Terra. Per realizzare la “foto del secolo” è stato perciò necessario costruire una rete di radiotelescopi collocati in luoghi distanti, dall’Antartide al Giappone, in modo che – sincronizzando le loro misure con la precisione di 1 secondo su cento milioni di anni – si comportassero come un unico telescopio di dimensioni planetarie. In questo modo è stato possibile osservare le sorgenti con la stessa risoluzione che sarebbe necessaria per distinguere un’arancia sulla Luna.
UN OCEANO DI DATI. Già questa era una sfida di tutto rispetto. Ma i 200 scienziati della collaborazione hanno dovuto affrontare e risolvere un’altra difficoltà: la gestione dei dati prodotti dalle misure. Ogni singolo radiotelescopio, infatti, genera una tale quantità di bit che è impossibile farli viaggiare attraverso Internet. La soluzione? Ogni stazione ha registrato i suoi dati su dischi rigidi, che poi sono stati inviati via aerea (la più veloce) nei due centri di calcolo dedicati all’analisi: uno al MIT di Boston (Usa) e uno al Max Planck Institut di Bonn (in Germania). In tutto, la foto sintetizza circa quattro petabyte di dati, più o meno gli stessi che occorrerebbero per fare un mosaico delle foto di tutti gli abitanti del pianeta.
INFALLIBILE ALBERT. Il risultato è sotto i nostri occhi. Una foto mai vista prima che ancora una volta conferma le previsioni della Relatività generale di Einstein. Il prossimo passo? Raccogliere immagini sempre migliori, per vedere in faccia i mostri più terribili dell’universo.
«Questo è solo l’inizio», enfatizza Goddi. «Ora dobbiamo focalizzarci su Sagittarius A*, studiare i campi magnetici, confrontare (con i dati che già abbiamo)immagini prese in momenti diversi. In futuro, vorremmo aggiungere nuovi telescopi al network e osservare a frequenze più alte, per avere una risoluzione ancora migliore e un’immagine più nitida. Nel lungo termine, vorremmo andare nello spazio e usare la stessa tecnica con i satelliti. Insomma saremo ancora molto occupati a migliorare le misure e a mettere alla prova in modo sempre più preciso la teoria di Einstein».
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