Siamo nati a un paio di mesi di distanza. Io comincio appena l’università e cerco di capire come caspita funzioni la vita; pronti via, lei ha già scritto Take the Box. Io non ho ancora finito la triennale; lei pubblica un disco che non dico l’ultima sciacquetta italiana, ma nemmeno le migliori Lauryn Hill e Macy Gray. Io mi arrabatto per specializzarmi; lei intanto è oggetto d’esame all’Università di Cambridge, Love Is a Losing Game viene comparata a una lirica di Sir Walter Raleigh (intanto, in questo paese perdiamo un anno del liceo a vivisezionare il maledetto ramo del lago di Como senza cavare un ragno dal buco, e qualcosa vorrà pur dire).
Amy Winehouse è morta il ventitré luglio di tre anni fa e non s’è ancora capito del tutto perché. Di sicuro, sappiamo che ha combattuto come una leonessa con quel coraggio che, per parafrasare il ramo di cui sopra, se uno non ce l’ha non se lo può dare. D’altronde i segni delle battaglie le sono rimasti impressi nella voce, che è andata perdendo la luminosa gioia di cantare di Frank (2003) fino a raggiungere la stanchezza a volte biascicata di Lioness: Hidden Treasures (2011), l’ultimo lavoro uscito postumo dove però è possibile lo stesso scovare alcune gemme (tipo A Song for You), giusto per dire che la classe resta sempre classe.
D’altra parte non s’è mai data per vinta, Mrs. Winehouse. Ha bevuto e fumato crack e perso dieci chili tra un disco e l’altro; ha rilasciato interviste ubriaca e cantato su un palco senza quasi reggersi in piedi; ha guerreggiato per amore, del marito Blake Fielder-Civil, pur consapevole di lasciarsene trascinare verso la polvere. E in questa incapacità di sottrarsi agli sguardi del pubblico, di negarsi alla cattiveria del mondo, c’è tutta la generosità di una donna che non sapeva pensare a se stessa, che i suoi soldi, dicono, li regalava a chiunque andasse a chiederglieli (oggi una fondazione benefica porta il suo nome).
Ma contro chi la voleva allineata come non avrebbe potuto essere, contro di loro non ha mai smesso di lottare. Ha mostrato strafottenza e somatizzato i titoli dei quotidiani che la sbattevano in prima pagina ogni tre per due; a chi la voleva in riabilitazione, ha risposto per le rime con un no no no divenuto celeberrimo. E non è che avesse bisogno di Rehab per arrivare al grande successo, perché se vi deliziaste dell’ascolto di Back to Black (2006) non ci trovereste un pezzo che non sia di maggior valore, che poi non so quanti artisti abbiano saputo mettere in fila una sequenza di canzoni come Back to Black, Love Is a Losing Game, Tears Dry on Their Own.
E insomma, magari alla fine è stata la solita storia del genio che esplode e non è che puoi chiedergli di aspettare e di ragionare, del genio che è così potente da crearsi e distruggersi da solo in una continua guerra con se stesso. Ma quanto alle armi che ha scelto, quelle convenzionali (tra gli artisti, da Baudelaire in giù) delle droghe e dell’alcool, lasceremo che del loro giudizio si occupi la stessa stampa che l’ha crocifissa e che ogni volta, parlandone, riesce a far passare in secondo piano le meraviglie che il suo talento immenso ci ha lasciato, sotto la guida dei suoi produttori e angeli custodi Mark Ronson e Salaam Remi.
Noi, piuttosto, ci limiteremo ad ascoltare quel poco che ci è rimasto, i tre dischi e i live che sono bastati a farla regina del nuovo soul. Ci illuderemo così, per riprendere uno dei pezzi più famosi e tra i migliori in assoluto della sua produzione, di averle detto addio solo a parole.
Oggi e sempre, le sia lieve la terra, signora Winehouse.
Vito Aguanno
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