“Per tornare a crescere bisogna modificare il sistema degli incentivi. Oggi, il nostro Paese tassa i fattori produttivi e premia la rendita. Quel che serve è una rivoluzione copernicana del sistema fiscale che riduca la pressione sul reddito personale e sulle imprese e la accresca sugli immobili e sulle rendite finanziarie”.
Parlava così nel lontano 2011 l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi scrivendo le 100 proposte al PD della Leopolda fiorentina. Ma si sa la coerenza non rientra tra le qualità dei politici tantomeno di quelli italiani. E così quattro anni dopo la Leopolda 2011, Matteo Renzi non soltanto ha fatto carriera diventando premier, ma nel corso della scalata evidentemente ha cambiato anche idea su molti temi. E purtroppo le ha cambiate in peggio.
Il 15 ottobre il premier e il Ministro Padoan hanno presentanto la legge di stabilità per il 2016 confermando una rivoluzione copernicana del fisco diametralmente opposta a quella avanzata nel 2011. A partire dal 2016, infatti, gli italiani proprietari di prima casa non pagheranno più IMU e TASI. Indipendentemente dalla tipologia di immobile, dalla rendita catastale e dal reddito del contribuente. Ma lasciando perdere il tema della coerenza politica, gemma ormai rarissima nel panorama italiano, andiamo al succo della faccenda.
L’abolizione delle tasse sulla prima casa vale 3,7 miliardi di euro, ma considerando anche l’IMU agricola e quella sui macchinari imbullonati il conto sale a 5,1 miliardi. La strada imboccata dal governo è valida soltanto per due motivi, e purtroppo non sono quelli giusti: le tasse sulla casa sono notoriamente le più odiate dagli italiani quindi la loro abolizione porta nella casse del PD molti voti certi; inoltre con questa battaglia di berlusconiana memoria l’esecutivo si assicura il sostegno del centrodestra. Le motivazioni di questa scelta, quindi, sono esclusivamente elettorali e di convenienza politica.
Le scelta, però, dal punta di vista della ricetta economica, che dovrebbe accompagnare l’Italia sulla strada della ripresa e della crescita, è totalmente sbagliata. Lo confermano anche le critiche arrivate al governo dalle istituzioni internazionali: Commissione UE, FMI, Eurostat e OCSE hanno spinto il governo al taglio del costo del lavoro anzichè le tasse sulla casa. Il costo del lavoro in Italia è il più alto d’Europa mentre la pressione fiscale sulla casa è in linea con la media europea. Per questo è dal 2012 che la Commissione europea, nelle raccomandazioni agli Stati membri, chiede all’Italia di tagliare le tasse sul lavoro e alzare quelle sugli immobili “meno dannosa per la crescita economica”.
La tassazione del patrimonio immobiliare è oggetto di un ampio dibattito a livello europeo e si inserisce nella discussione sulle riforme strutturali che sono in grado di rilanciare l’economia dal lato dell’offerta e di introdurre misure contro la disoccupazione e le conseguenze sociali della crisi. Il livello di debito accumulato restringe notevolmente gli spazi per gli investimenti e la politica fiscale ha scarsi margini di manovra. Dopo una lunga crisi, buona parte della risorse economiche vanno a tenere in equilibrio i conti pubblici e i governi sono costretti a fare delle scelte.
E’ quindi fondamentale che le riforme strutturali siano ben calibrate per favorire la ripresa e il rafforzamento del sistema economico e della produttività. In questo senso, la Commissione europea parla di strutture impositive “growth-friendly”, caratterizzate da “una riduzione del carico fiscale sulle imprese e sul fattore lavoro e incremento del carico sul patrimonio immobiliare, rivedendo anche i regimi agevolativi che creano distorsioni e riducono l’efficienza complessiva del sistema”.
In un rapporto sulla tassazione immobiliare a livello europeo, l’Agenzia delle Entrate italiane sostiene che il rapporto tra tassazione e crescita economica ha suscitato un notevole interesse al punto da proporre una classificazione delle imposte, a seconda che siano più o meno orientate alla crescita economica. Calcolando l’impatto delle varie tipologie di imposte sulla crescita economica, in termini di PIL pro-capite, produttività totale dei fattori e investimenti è risultato che “le imposte più distorsive sono le imposte sulle società, seguite dalle imposte sulle persone fisiche, sul consumo, e infine sulla proprietà; in particolare, le imposte ricorrenti sulla proprietà immobiliare”.
Ciò significa che per far ripartire la crescita di un Paese è necessario tagliare il costo del lavoro e alleggerire le imposte sulle persone fisiche perchè rappresentano il freno alla crescita. Al contrario, le imposte sulla casa sono le meno distorsive, le ultime su cui andare ad incidere. Un Paese ricco, in forte crescita, con imposte sulle società e sulle persone fisiche ridotte potrebbe pensare di abolire le tasse sulla casa. Ma un Paese con l’acqua alla gola, che deve indebitarsi per trovare le coperture economiche alle sue riforme deve privilegiare il taglio del costo del lavoro.
Come abbiamo già spiegato, abbassare il cuneo fiscale innesca un circolo virtuoso che parte con la spinta alle esportazioni (le imprese possono offrire sul mercato internazionale prodotti e servizi a prezzi più competitivi). Ma non solo. Parte dei risparmi può essere reinvestito per allargare la propria azienda e fare assunzioni determinando così una diminuzione del tasso di disoccupazione. Dall’altra parte, se tagliando il cuneo fiscale i redditi più bassi ricevessero un aumento del salario netto potrebbero consumare di più, facendo ripartire anche il mercato interno dei consumi.
Al contrario il taglio delle tasse sulla casa non farà ripartire il mercato immobiliare in crisi da quando gli italiani hanno smesso di comprare case e l’offerta ha superato nettamente la domanda facendo crollare i prezzi. E la domanda è: perchè gli italiani non comprano più casa? Sui giovani italiani grava un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa: niente lavoro, niente casa. Stesso discorso per molti italiani che con la crisi hanno perso il lavoro o sono in ritardo con una rata dalla macchina e si sono visti chiudere il rubinetto del credito da parte delle banche. Gli italiani non possono comprare casa e ad impedirlo non è certamente lo spauracchio della TASI.
Ricapitoliamo: la scelta di tagliare le tasse sulla casa è dettata soltanto da un calcolo di convenienza politica, ma è totalmente scellerata dal punto di vista economico. E’ la strada opposta a quella della crescita, del rilancio della produttività, della spinta all’occupazione. Totalmente sconsigliata per un Paese che deve ancora uscire dalla crisi e tornare a crescere.
A questo si può aggiungere che è vergognosamente iniqua. A godere maggiormente dell’abolizione delle tasse sulla casa, infatti, sarà la fascia più ricca di italiani. L’IMU attualmente è dovuta soltanto sulle abitazioni con rendita catastale A-1 A-8 A-9 che comprendono ville, case di pregio storico e artistico, castelli. Con l’abolizione totale delle tasse sulla casa l’Italia diventa l’unico paese in Europa dove chi vive in un castello non deve pagare le tasse sull’immobile. Una decisione assurda che cancella con un colpo di spugna la già timida equità scaturita dalle diverse aliquote e detrazioni per la TASI.
Il tema dell’equità, una volta tanto caro alla sinistra e al PD, gira intorno ad un unico perno: la riforma del catasto. Con la delega fiscale (Legge 23/2014) il governo Renzi aveva avviato il percorso di revisione del catasto immobiliare e di adeguamento dei valori catastali del patrimonio immobiliare ai valori di mercato, in linea con le raccomandazioni UE. Il primo decreto legislativo è stato approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 novembre 2014. Stabilisce le modalità di composizione delle commissioni censuarie e ne precisa le competenze ai fini della revisione del sistema di calcolo del Catasto. Sulla base del nuovo catasto più equo e legato alla realtà attuale delle città italiane sarebbero state modulate le tasse sulla casa, leggere per i più poveri, alte per i ricchi. Dopo pochi mesi però la riforma è naufragata portandosi dietro ogni tentativo di introdurre equità nella tassazione degli immobili italiani.
Insomma la decisione di tagliare le tasse sulla casa anzichè veicolare quei 5 miliardi di risorse verso il taglio del cuneo fiscale è la scelta di un governo cieco alle esigenze di un Paese, ma molto attento a quelle elettorali.
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