L’ora ics sta per scattare. Il 15 febbraio sarà il giorno della presentazione dell’intesa sull’autonomia differenziata per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. E timidamente il tema comincia ad affiorare dal punto di vista mediatico. Tra le proteste, più che comprensibili delle regioni del Sud. Tutte o quasi. Perché fra le voci critiche non ci sono quelle di Sicilia e Sardegna, che l’autonomia, a differenza delle altre regioni del Mezzogiorno, ce l’hanno. E che stanno sostanzialmente sdoganando l’accordo che lo Stato sta chiudendo con le regioni ricche del Nord, un accordo che per i detrattori metterà nero su bianco il diritto dei ricchi a essere ancora più ricchi e buona fortuna a tutti gli altri. La Sicilia non si strappa le vesti, anzi. Mentre dall’Isola il Pd protesta – ma fu con un governo Pd, l’esecutivo di Gentiloni, che questo processo venne avviato – il governo regionale abbozza nella speranza che il rinato slancio autonomista serva anche all’Isola per spuntarla su alcune storiche battaglie mai vinte. Ma sarà davvero così?
La riforma
Quella che potrebbe avviarsi da qui a tre giorni è una riforma di enorme portata. Anche se sembra che si sia fatto tutto il possibile per silenziarla. Le bozze sono riservatissime, il dossier lo gestisce una ministra leghista, Erika Stefani agli Affari regionali. Prevede il riconoscimento di un’autonomia enorme a Veneto e Lombardia e in parte anche all’Emilia Romagna. Con il passaggio alle Regioni di tantissime funzioni oggi esercitate dallo Stato. E conseguentemente con il passaggio di risorse. Commisurate peraltro alla popolazione residente e al gettito dei tributi. Cioè tanto più la Regione è ricca, tante più risorse avrà a disposizione per i suoi servizi. Il che, considerato il già esistente gap dei servizi tra Nord e Sud aumenterà le disuguaglianze tra le due Italie. Non solo: in base alle bozze d’accordo, se Veneto e Lombardia avranno ottenuto più soldi del reale costo dei servizi (che malgrado tutte le leggende è più alto al Nord che al Sud), quei maggiori fondi resteranno nella loro disponibilità e non torneranno allo Stato centrale.
Le critiche
Qualche voce critica si è levata, soprattutto dal Sud. Per farsi una efficace idea di dove sta andando il “federalismo fiscale” all’italiana può aiutare e molto la lettura di libri come “Zero al Sud” di Marco Esposito o “Verso la secessione dei ricchi” di Gianfranco Viesti. Testi utili a comprendere come il cammino in corso porti con sé il concetto che i diritti di cittadinanza “a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro-capite è più alto”, per dirla con Viesti. Accettando così, ad esempio, che lì dove asili nido non ce ne sono, questo vuol dire più o meno che non servono e che no c’è bisogno di stanziare i fondi per quei territori. Sembrerebbe un paradosso ma è quanto è accaduto in questi anni, racconta Esposito, che ricorda come i governi di centrosinistra avessero promesso di aggiustare questa stortura, invano.
Il Consiglio regionale calabrese ha approvato all’unanimità una risoluzione, inviata alla presidenza del Consiglio dei ministri, che diffida il governo nazionale dal trasferire ulteriori poteri alle regioni ricche prima di una “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Si tratta dei famosi “lep”, quei livelli minimi che erano un pilastro della riforma federalista e che non sono mai stati definiti. A scapito di chi? Ovviamente di chi quei livelli non li raggiunge, cioè gli italiani che vivono nelle regioni più povere.
Il Pd siciliano con Davide Faraone ha alzato la voce sul punto, chiedendo a Musumeci di partecipare al consiglio dei ministri che tratterà la devoluzione in favore delle regioni del Nord per opporsi al progetto. “Il disegno secessionista della Lega Nord sta per trionfare e tutti zitti e mosca. Ma battiamo un colpo? Presidente Musumeci, che fa? Si vergogna dopo esser stato ospitato a Pontida?”, dice il segretario del Pd siciliano (che era sottosegretario all’Istruzione quando maturava la “quota zero” per gli asili del Sud, quel Sud dove secondo i dati Svimez 2018 gli studenti con il tempo pieno sono il 15 per cento contro il 45 del Nord, in Sicilia sono il 7 per cento, peggio fa solo il Molise). Faraone ha anche lamentato una certa distrazione sul tema del Pd nazionale. Che non stupisce in realtà. Visto che in questi ultimi anni il Pd (il partito che non ha mai avuto nella sua storia un meridionale in una delle sue quattro cariche principali), in buona sintonia con la Lega e con il centrodestra nordista, su questo terreno ben poco ha fatto per intervenire in favore del Meridione. E non solo su questo terreno. La spesa nel Mezzogiorno del settore pubblico allargato nel 2015 era il 28,6 per cento del totale nazionale, e questo sebbene nel Mezzogiorno viva il 34,4 per cento degli italiani. Nelle Isole era del 7 per cento e nelle Isole vive l’8,4 per cento della popolazione italiana. Insomma, non solo il Sud è più povero e accusa ritardi rispetto al Nord ma la quota della spesa è addirittura sottodimensionata rispetto alla popolazione. La crisi poi ha dato il colpo di grazia, visto che la contrazione della ricchezza subita è stata doppia rispetto a quella del Nord.
E allora, altro che ulteriore spinta al Nord. Occorrerebbe semmai un vero piano di sviluppo del Sud che attui il federalismo nella sua componente solidale, cioè la perequazione. Ossia quegli interventi volti a ridurre il gap tra il Nord e il Mezzogiorno. Visto anche che, altri dati Svimez, il Fondo di sviluppo e coesione è praticamente fermo (impegnato un miliardo e mezzo su 32) e i “Patti per il Sud” stanno vivendo enormi criticità. Ma forse sperare che un governo a trazione leghista, con roccaforte di consenso al Nord, si prenda la briga di farlo è quasi un’utopia.
La Sicilia
Già, quasi un’utopia. A cui però qualcuno sembra credere. Cioè l’ottimista governo regionale siciliano. Nello Musumeci ha spiegato che i siciliani, da autonomisti, non possono certo temere l’autonomia altrui. Analoghe le prese di posizione del vicepresidente della Regione Gaetano Armao che spiega che “il regionalismo differenziato previsto dall’articolo 116 della Costituzione, sul quale premono la Lega e le Regioni del Nord, non danneggerà la Sicilia se contestualmente troveranno riconoscimento, così come ha richiesto il Governo regionale, le previsioni dello Statuto e la contemporanea attivazione degli strumenti di perequazione fiscale ed infrastrutturale previsti dalla stessa Costituzione e dai Trattati UE, nonché dalla disciplina sul federalismo fiscale. La Sicilia lo sostiene da mesi al tavolo della Conferenza delle Regioni”.
In quel “se contestualmente” sta la chiave di tutto. Fino a ora così non è stato. Per niente. Cambieranno le cose? La giunta regionale ci conta e si aspetta, in base ad accordi chiusi con lo Stato, novità normative già entro il prossimo settembre. La speranza è quella di far riconoscere alla Sicilia delle prerogative statutarie in materia di fisco, che permettano di trattenere nell’isola somme significative. A quel punto, dice Armao, la Sicilia non potrà “che sostenere questo percorso, purché l’evoluzione dell’ordinamento sia accompagnata dal riconoscimento delle sue competenze finanziarie”.
Quanto ci si può fidare di Roma in questa trattativa? I precedenti suggerirebbero prudenza, se non scetticismo. La presenza al governo di una forza politica che ha conquistato il grosso del suo consenso elettorale al Sud, cioè il Movimento 5 Stelle, potrebbe rappresentare un elemento di speranza in più. Anche se il modo in cui i grillini fin qui hanno dato l’impressione di non toccare palla nel dibattito sulle autonomie alle regioni ricche (molto più ficcante è apparso Di Maio sul televoto di Sanremo) non è particolarmente incoraggiante in questo senso. Ciò non di meno, dal tavolo aperto con il governo nazionale la giunta ha già portato a casa i primi risultati nel dicembre scorso. I prossimi mesi saranno quelli decisivi per capire se il vento dell’autonomia porterò benefici oltre che nel ricco Nord anche nella Sicilia dagli sconfortanti indicatori economici.
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