Inghilterra e Galles votano per uscire dall’Unione, Scozia e Irlanda del Nord per restare. Il leader storico degli euroscettici dell’Ukip canta vittoria: “Questa è l’alba di un Regno Unito indipendente, è arrivato il momento di liberarci da Bruxelles”
Il Regno Unito è fuori dall’Unione Europea: nel referendum sulla cosiddetta Brexit i cittadini britannici hanno votato con il 52% per l’uscita dall’Ue. Il leader storico degli euroscettici dell’Ukip, Nigel Farage, canta vittoria: “Questa è l’alba di un Regno Unito indipendente, oggi è il nostro Independence Day, è arrivato il momento di liberarci da Bruxelles”. Alla domanda se Cameron, che ha indetto il referendum nel 2013 e una campagna per rimanere nella Ue, dovrebbe dimettersi Farage ha detto: “Immediatamente“.
I primi dati e le prime analisi avevano fatto pensare ad una vittoria del fronte Remain. Poi, via via che i numeri ufficiali hanno iniziato ad affluire, ci si è resi conto che la realtà era radicalmente diversa da quella prospettata da sondaggisti e analisti. I primi ad accorgersene sono stati i mercati che, dopo un apertura entusiastica, spinta dai sondaggi effettuati a urne aperte, hanno fatto segnare una netta inversione di tendenza facendo sprofondare la sterlina a livelli che non conosceva da metà anni ottanta.
Poi sono arrivati i broker, che hanno deprezzato la vittoria del Leave. Uno dopo l’altro sono arrivati i risultati delle periferie, delle campagne, di quelle zone del paese che maggiormente si trovano a dover fare i conti con un mercato del lavoro sempre più difficile, con la paura dell’immigrazione e la frustrazione di non riuscire a garantire un futuro dignitoso per i propri figli. Sono loro i fautori della vittoria del fronte Leave. Una classe popolare spaventata dal futuro, insoddisfatta dal proprio presente, che preferisce compiere un salto nel buio votando la Brexit.
Un evento deflagrante, che porta la firma della destra populista, quella dell’Ukip di Nigel Farage, quella dei conservatori euroscettici di Boris Johnson. Quella di chi ha condotto una campagna – a tratti violenta – contro l’immigrazione e contro l’integrazione. Una vittoria, quella del Leave, che è stata strappata con le unghie e con i denti contro il volere e le previsioni della finanza, contro il volere e le previsioni dei poteri forti, contro i sondaggi, contro gli appelli, contro l’opinione e gli sforzi dei principali partiti e dei leader internazionali. La Brexit ha vinto. Circa 17 milioni di britannici (il 52% degli elettori) hanno segnato il destino del Paese, aprendo una ferita profonda, destinata a far sentire le sue conseguenze anche nel resto del Continente, chiamato ora a fare i conti con un’ondata di euroscetticismo senza precedenti.
La realtà è che il risultato del referendum, consegna alla storia un Paese frammentato e c’è da immaginarsi che le conseguenze, prima ancora che su un piano internazionale, si faranno sentire in terra britannica. Scozia (dove il Remain ha vinto in tutti i 32 distretti in cui è suddiviso il Paese con 1.661.191 voti contro i 1.018.322 andati al Leave, con un’affluenza del 67,2%) e Irlanda del Nord (ha vinto il fonte degli euroconvinti con 440.437 voti, il 55,78% dei voti , contro i 349.442 andati agli euroscettici, con un’affluenza del 62,9%) hanno votato per rimanere, il Galles e l’Inghilterra per uscire. Una frattura che tornerà a far parlare di separazione.
Un’ipotesi ventilata nelle settimane della campagna elettorale, che ha trovato subito conferma nelle in dichiarazioni ufficiali pronunciate questa mattina, a risultati non ancora definitivi. Il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon ha prima espresso soddisfazione per il risultato del suo Paese, sottolineando che “Tutta la Scozia è per il Remain”, aggiungendo poi che vede il futuro del proprio Paese “come parte dell’Unione Europea”.”La Scozia – ha ricordato, parlando prima dell’ufficializzazione della vittoria della Brexit – ha contribuito in modo significativo al voto per restare. Questo riflette la campagna positiva che il Partito nazionale scozzese ha combattuto, sottolineando i benefici dell’adesione alla Ue, e la gente in Scozia ha risposto in modo positivo”.
Reazione speculare anche Irlanda del Nord, dove a parlare è lo Sinn Fein che non ha tardato a far sapere che l’esito del voto accelera il processo di separazione dal Regno Unito. Il presidente onorifico del partito repubblicano nordirlandese, Declan Kearney, ha fatto sapere che la vittoria della Brexit deve portare a un nuovo referendum sull’unità dell’Irlanda. “Il governo britannico ha perso ogni mandato che doveva rappresentare gli interessi economici o politici dell’Irlanda del Nord”, ha detto il leader della formazione, l’ex braccio politico dell’esercito repubblicano irlandese (IRA).
In linea teorica il parlamento potrebbe decidere di non uscire dall’Ue, ma andare contro il volere espresso dagli elettori non è un’idea razionalmente perseguibile. Il risultato del voto del referendum non è infatti direttamente vincolante. Presumibilmente quindi il parlamento ratificherà l’eventuale decisione popolare a favore della Brexit e inizierà la procedura di uscita. Ci vorranno almeno due anni di negoziati, durante i quali il Regno Unito rimarrà ancora parte dell’Ue ma solo in maniera formale.
Male le Borse, crollano le asiatiche – La sorpresa è stata forte e i crolli sui mercati proporzionati: nelle ore dello spoglio i listini sono crollati (sterlina -10%, la Borsa di Tokyo ha toccato punte di calo dell’8%, i futures sull’avvio della Borsa di Londra sono arrivati a cedere il 9%), mentre i beni rifugio (oro e derivati sui titoli di Stato Usa) stanno ovviamente correndo.
Il mercato azionario di Tokyo – che ha applicato il ‘circuit breaker‘ per inibire le funzioni di immissione e modifica degli ordini limitando i ribassi troppo elevati – è il listino borsistico aperto durante lo spoglio del voto che ha accusato maggiormente il colpo, arrivando a perdere con l’indice Nikkei fino all’8,17%, lasciando sul terreno oltre 1.300 punti. La Banca del Giappone è pronta a fornire liquidità, se necessario, per garantire la stabilità dei mercati, ha detto il governatore, Haruhiko Kuroda.
Hong Kong scende oltre il 4%, con Seul, Sidney e Mumbai che cedono più del 3%. Meno accentuati (attorno ai due punti percentuali) i cali di Singapore, Bangkok e Jakarta, mentre anche le Borse cinesi – che in un primo momento hanno provato a tenere – dopo la la pausa di metà seduta raddoppiano le perdite: Shanghai perde scende di oltre il 2% e Shenzhen più del 3%.
Ma quello che preoccupa di più sono i ‘futures’ sull’avvio delle Borse occidentali: quelli sulla partenza della Borsa di Londra continuano a peggiorare con le stime del circuito Bloomberg sull’indice Ftse 100 che hanno segnato un calo massimo del 9%, per poi ripiegare a -8%, con i futures sulla partenza di tutti i listini del Vecchio continente compreso Milano che si muovono su ribassi simili.
I primi scambi, che avverranno nel pomeriggio europeo, dello S&P di New York sono visti in perdita di oltre il 5% e peggio va sui mercati valutari: la sterlina sta lasciando sul terreno oltre il 10% contro il dollaro, mentre la moneta virtuale Bitcoin sale del 5%.
Intanto il petrolio è in calo e cede oltre il 6% a 47 dollari per il barile Wti mentre il Brent perde poco meno (il 5,95%) a 47,88 dollari. Corre ovviamente l’oro, considerato il bene rifugio per eccellenza: le sue quotazioni – forti da giorni – salgono del 7,8% ai massimi dal 2008.
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