Com’era prevedibile (oltre che previsto) l’aumento del cosiddetto equo compenso (che poi tanto equo non è) ha avuto le conseguenze più attese: alcuni produttori hanno deciso di addossare il balzello ai consumatori, perché possono farlo ed è normale che lo facciano. Alcune aziende, però, hanno deciso di rendere esplicita tale tassazione, provocando le proteste pavloviane di chi o vive nella profonda ignoranza oppure è in totale malafede. Parliamo della SIAE e del suo ufficio stampa politico, fra i quali spiccano il ministro Dario Franceschini (già noto alle cronache per le sue gigantesche menzogne in difesa della SIAE) e il deputato del PD (nonché inspiegabile presidente della Commissione Bilancio della Camera) Francesco Boccia.
L’azienda che più ha fatto rumore è stata Apple, che ha dichiarato un aumento del prezzo dei suoi prodotti addossando la colpa al ritocco all’equo compenso, definendolo “tassa sul copyright”. Poco importa che l’equo compenso sia per la legge qualcosa di diverso da una tassa, per il consumatore l’effetto è lo stesso: l’equo compenso è come l’accisa sul tabacco o sulla benzina, paga sempre l’ultimo tapino della catena, che lo vogliate o meno.
La SIAE, in evidente stato confusionale, oltre che in caduta di immagine, ha subito preso le difese dell’equo compenso (e quindi dei propri introiti) con una provocazione che ha molto del peggior trash tragicomico, in sostanza usando i cittadini come scudi umani: per difendere i consumatori vorrebbero vendere loro gli iPhone a prezzo scontato, diventando una specie di Apple Store abusivo.
La motivazione, secondo una SIAE con gravi problemi ad affrontare la realtà, è che «la multinazionale americana [ha] come unico obiettivo quello di aumentare i propri profitti attraverso la discriminazione dei consumatori italiani rispetto a quelli degli altri Paesi europei».
Sappiamo che in Italia siamo ormai abituati ad aziende ed altri enti (come la SIAE, peraltro) che hanno profitti sempre minori e spesso negativi, però bisogna dire che lo scopo (non unico, ma principale) di ogni azienda (multinazionale o di quartiere) è fare profitti, per cui accusare un’azienda di voler fare profitti è come prendersela con la gravità se ti fai scappare di mano sul pavimento un piatto del servizio buono. Se lo Stato introduce o aumenta un balzello non si capisce perché dovrebbero pagarlo le aziende, se possono (legalmente) non pagarlo. L’alternativa sarebbe comprimere i costi per mantenere il margine, per esempio licenziando qualche dipendente italiano: la SIAE preferisce questo?
Il paragone con altre realtà europee fatto dalla SIAE (pardon, dal suo ufficio stampa, il ministro dei Beni SIAE Dario Franceschini), poi, è ridicolo: tralasciamo il fatto che la SIAE metta a confronto l’equo compenso dei due Paesi europei fra i più cari dimenticando che c’è un’altra ventina di Paesi che applica questo balzello, ma addirittura prende a esempio l’equo compenso tedesco che non è stato ancora approvato, e che rischia di non esserlo mai, visto che le proteste lì sono feroci.
Ma non è finita qui: la SIAE ignora le più elementari dinamiche del libero mercato. Ogni azienda in ogni mercato si fa i suoi bei calcoletti e decide a quanto prezzare un determinato prodotto in modo da massimizzare i profitti: i prezzi nei vari Paesi europei sono diversi perché è diverso il mercato, sono diversi i costi del lavoro, le imposte pretese dallo Stato eccetera.
Alcuni produttori che competono sul prezzo applicheranno solo parzialmente l’equo compenso (oppure molto meno), tagliando altrove (sui profitti e quindi sulle tasse pagate, sui lavoratori o su altri costi). In altri casi (come nel caso di Apple) la presenza di una domanda rigida permetterà alle imprese di scaricare tutto il costo sui consumatori: gli Apple-maniac non comprano un iPhone per il prezzo, bensì perché c’è la Mela morsicata sul retro, e sono meno sensibili al prezzo. Apple non fa altro che spiegare ai consumatori perché il prezzo di listino è aumentato.
Ciò che sfugge ai signori del balzello è una questione basilare: ogni tassa deve essere pagata da qualcuno, e di regola questo qualcuno è il soggetto più debole, ovvero il cittadino, che paga tutte le tasse per vie dirette o indirette.
L’altro pezzo dell’ufficio stampa della SIAE che si è mosso di concerto con i consiglieri di Gino Paoli è Francesco Boccia, geniale quando si tratta di esporre la sua crassa ignoranza (quello che “gli F-35 sono elicotteri”), ha subito colto la palla al balzo per riesumare una delle sue più fantasmagoriche idee per attaccare le multinazionali cattive e complotti vari: la Web Tax.
Un’efficace metafora della proposta di Boccia è quella della polizia che bombarda un centro commerciale strapieno di persone a due settimane dal Natale per stanare un tizio che non si è lavato le mani dopo aver usato la toilette.
Per quanto l’imposizione fiscale delle multinazionali deve essere armonizzata a livello europeo per chiudere i loophole fiscali (ma non succederà a breve termine per via del potere di veto dell’Irlanda) l’introduzione dell’imposta solo in Italia avrebbe due conseguenze, ma le stesse vittime: piuttosto che adeguarsi ad una norma palesemente contrastante con le normative europee fondamentali, le multinazionali sceglierebbero di sospendere o limitare le operazioni in Italia in attesa che l’Europa cali la sua scure sull’ignoranza italiota, oppure di continuare ad operare, aspettando di essere rimborsate quando sarà finito l’iter della stroncatura a Bruxelles.
In ogni caso a rimetterci saranno i consumatori e le aziende, che non potranno usufruire di importanti beni e servizi offerti da Apple, ma anche Google, Facebook e altri, che pure non c’entrano troppo con l’equo compenso, e che, in caso di prevedibile testardaggine degli ignoranti al timone, dovranno ripagare le multinazionali e magari pure le multe europee. Tanto lo stipendio di Boccia e quindi le multe dell’Europa le pagano i cittadini, per cui al presidente della Commissione Bilancio andrà comunque di lusso.
In conclusione, le conseguenze dell’equo compenso e le reazioni delle aziende all’aumento sono perfettamente normali e prevedibili, almeno per chi non ignora come funziona l’economia più basilare, o è in malafede. Il lettore decida se la SIAE e il suo ufficio stampa politico sono l’uno o l’altro: fatto sta che l’Italia non può più permettersi di mantenere questi carrozzoni semi-pubblici e questi incapaci, in entrambi i casi.
Finte: IBT