PALERMO – Le gare, bandite nel 2010 erano state aggiudicate già nel 2012. Bandi che avrebbero fatto ripartire i siti culturali siciliani, in grave sofferenza. Ma il governo Crocetta alla fine del 2013 ha deciso di fermare tutto: quelle gare, secondo il presidente, erano viziate dall’assenza di una norma sugli appalti. Una norma regionale approvata due anni prima che, secondo Crocetta, doveva rappresentare un argine alla possibile infiltrazione di Cosa nostra e della criminalità organizzata in quel settore. Così, gli affidamenti sono stati sospesi. Ma quella norma, per la Corte costituzionale è illegittima.
Per un anno e mezzo, insomma, alcune tra le più grandi società che si occupano di cultura in Sicilia e in Italia sono rimaste “al palo” nonostante avessero vinto un bando pubblico. E adesso sono pronte a presentare al governo Crocetta una richiesta di risarcimento milionario. Che si potrebbe aggiungere all’eventuale danno erariale, visto che nei prossimi giorni partirà anche un esposto alla Procura della Corte dei conti: lo ha già annunciato l’ex assessore Gaetano Armao. Quelle gare erano state volute proprio da lui in qualità di assessore ai Beni culturali del governo Lombardo. Bandi, appunto, che avrebbero portato all’affidamento ad altre ditte dei servizi di biglietteria e degli “aggiuntivi” (dai bookshop ai bar, dalle guide ai pullman) nei siti delle Province di Palermo, Agrigento, Siracusa, Trapani e Messina. “Avevo deciso – spiega Armao – di non prevedere quella norma nei bandi, perché era già allora evidentemente incostituzionale”.
E invece, a inserirla ha pensato Crocetta. Che in questo modo ha fermato le gare già espletate. Erano i giorni caldi dello scandalo “Novamusa”. Il titolare dell’azienda, Gaetano Mercadante, stando all’accusa, avrebbe intascato i soldi dello sbigliettamento che erano invece destinati alla Regione. “Lo scandalo degli scandali”, per il governatore. Che rilanciò: i privati stiano fuori dai siti culturali siciliani. Preannunciando persino l’invio dei precari siciliani in musei, pinacoteche, parchi archeologici.
La Corte costituzionale, però, ha detto che quelle gare non andavano fermate. Almeno sulla base di quella motivazione. La Consulta è stata chiamata a esprimersi direttamente dal Tar che aveva raccolto il ricorso di alcune delle ditte “sospese”. “E questo – lamenta oggi Alberto Coppola, responsabile della Cooperativa Culture – è uno dei fatti più assurdi della vicenda. A sollevare il problema dell’assenza di quella norma non è stato un concorrente escluso dalla gara, come accade solitamente, ma è stato proprio il governo regionale, che ha voluto usare in maniera pretestuosa e impropria una norma sbagliata. Intanto, noi abbiamo perso due anni”.
Per stoppare il bando, come detto, l’allora dirigente generale del dipartimento Beni culturali Sergio Gelardi, che firma il decreto, si basa sull’assenza, negli avvisi, del richiamo a un articolo della legge regionale 15 del 2008. La legge sugli appalti. Che prevede, a quel comma, l’obbligo del cosiddetto “conto dedicato”. In pratica, un conto corrente unico, che l’azienda vincitrice avrebbe dovuto utilizzare per qualsiasi operazione legata all’appalto. Insomma, gare sospese. Si ferma tutto.
Ma le società non ci stanno. Così, la Cooperativa Culture in proprio e nella qualità di mandataria del Raggruppamento temporaneo di imprese (che raggruppa una ventina di aziende del settore, tra le più importanti in Italia) decide di presentare ricorso. Il Tar, di fatto, rimanda tutto alla Corte costituzionale. Accogliendo, in parte, le questioni sollevate dai privati.
Per intenderci, secondo le società ricorrenti, quella legge del 2008, nella parte riguardante il “conto dedicato”, è incostituzionale, perché di fatto invade la competenza legislativa statale. Una competenza esclusiva, nelle materie riguardanti ‘ordine pubblico e la sicurezza. Quell’articolo, infatti, prevedendo il conto unico, rappresenta, nelle intenzioni del governo regionale, uno strumento di contrasto alle infiltrazioni della criminalità. Sconfinando, appunto, nella competenza statale.
Ma non solo. La norma, avevano spiegato i giudici amministrativi con la propria ordinanza più di un anno fa, è irragionevole in quano introduce un automatismo sproporzionato. Ovvero quello della immediata nullità del bando. Una “sproporzione” che se ne aggiunge ad un’altra: quella che prevede l’esclusione delle ditte in caso di semplice “rinvio a giudizio” per reati legati all’associazione a delinquere. Una norma che contraddice i principi costituzionali della certezza della pena. Tutte questioni confermate dalla Corte costituzionale. “La finalità delle norme impugnate, l’oggetto materiale su cui incidono e gli strumenti normativi impiegati – si legge nella sentenza -gravitano nel campo occupato dalla normativa statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di “ordine pubblico e sicurezza”, rispetto alla quale il legislatore regionale è estraneo, senza che possa essere invocata l’autonomia speciale statutariamente accordata alla Regione siciliana. D’altra parte, – prosegue la Consulta – nel caso in esame vengono in rilievo misure specifiche di prevenzione e contrasto alla criminalità organizzata, il cui carattere fondamentale consiste proprio nella conformazione uniforme su tutto il territorio dello stato e nella coerenza sistematica con l’intero impianto della legislazione nazionale, finalizzata a combattere la penetrazione della malavita nelle commesse pubbliche”. Un nuovo pasticcio, insomma. E adesso le aziende escluse promettono battaglia. “Speriamo che la Regione torni indietro sui suoi passi – dicono – ma noi intanto abbiamo perso due anni”. E adesso sono pronte a chiedere un risarcimento milionario.
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