Pochi sanno che il passaggio dalla vecchia Finanziaria alla “nuova” legge di Stabilità avrebbe dovuto comportare anche dei cambiamenti a livello di stesura. Parlando in parole povere il provvedimento avrebbe dovuto trasformarsi in un insieme di norme tabellari, prive di quella montagna di emendamenti a cui sembrano essere affezionati i parlamentari italiani, ma anche di misure microsettorali e localistiche. E invece a cinque anni dalla trasformazione ci ritroviamo una Manovra composta da 1.193 commi, una creatura mostruosa che conquista di diritto il terzo posto nella classifica delle Finanziarie più grasse della storia a testimonianza che, rispetto al passato, è cambiato solo il nome.
A confermare quanto appena detto anche la presenza di quelle disposizioni localistiche e microsettoriali di cui non parla mai nessuno ma che contribuiscono a far spendere milioni allo Stato e parallelamente ad aumentare la taglia della Legge di Stabilità. Qualche esempio? L’emendamento che proroga i contratti di 7mila precari nei comuni a rischio fallimento (o totalmente falliti) della Sicilia, i 20 milioni di euro al corpo forestale calabrese e i 9 milioni di euro al Comune di Campione d’Italia allo scopo di mettere una pezza ai 105 milioni di perdite del famoso casinò di proprietà di una società pubblica.
Una misura quest’ultima che assume un carattere quanto mai esemplare considerando che, in via teorica (e soprattutto legislativa), lo Stato dovrebbe cedere le partecipate non coerenti con la sua attività istituzionale. Ma evidentemente fiches e tappeti verdi vengono considerati istuzionalmente accettabili nonostante le casse vuote e i numerosi proclami che invece parlano di lotta al gioco d’azzardo. Perché se è vero che da che mondo è mondo “il banco vince sempre” questa regola non vale per le case da gioco di proprietà dello Stato italiano. Case, sì, al plurale. Perché Campione non è l’unico casinò pubblico del Paese, ma si trova in buona compagnia.
Tra le partecipate italiane figurano anche il casinò di Saint Vincent, quello di Venezia e ovviamente la celeberrima casa da gioco di Sanremo. Ma se Campione è in rosso, come vanno gli altri?
Un inchiesta pubblicata qualche mese fa dal Corriere della Sera a firma di Sergio Rizzo comincia così: “Lo sanno i 128 mila valdostani che ciascuno di loro ha dovuto spendere 390 euro per tappare i buchi di casinò? In caso contrario li invitiamo a leggere una relazione sfornata un paio di mesi fa dalla Corte dei conti sulla situazione delle ottomila società partecipate dagli enti locali e reperibile facilmente su Internet,dove c’è scritto che la Regione Valle D’Aosta, l’unica in Italia a trattenere il 100 per cento dell’Irpef pagata dai propri residenti, si è indebitata per 50 milioni di euro «al solo fine di rilanciare la casa da gioco gestita dal Casinò de la Vallée spa».
Esatto, avete capito benissimo, in quanto “società pubbliche” le perdite di queste case da gioco ricadono ovviamente sui contribuenti italiani, costretti a mettere mano al portafoglio per cercare di tenere in piedi delle macchine che da anni non funzionano più (sempre che abbiano mai funzionato) e che tra l’altro dovrebbero essere state privatizzate da tempo immemore.
Ma scendiamo nel dettaglio. A quanto ammontano queste perdite? In base a quanto si legge nei bilanci, il casinò di Saint Vincent ha perso, solo nel 2014, 19,1 milioni di euro. Un caso? Per nulla. Nel 2013 il rosso ammontava a 21,1 milioni, nel 2012 a 18.6. In un decennio si parla di quasi 68 milioni di euro. Ma come fa una casa da gioco a perdere tutti questi soldi? Colpa della crisi, secondo chi la gestisce, i giocatori non hanno più soldi da spendere in slot machine e roulette. Ancora peggio è andata al Casinò di Campione che in 10 anni accumulato 105,2 milioni di perdite, metà delle quali tra il 2012 e il 2013.
E che dire di Venezia e Sanremo? Per la casa da gioco del capoluogo veneto abbiamo un bel -117,1 milioni dal 2005 al 2014, mentre il casinò di Sanremo risulta il più virtuoso con un rosso pari “solo” a 24,1 milioni di euro.
In totale, negli ultimi 10 anni il rosso dei quattro casinò italiani ammonta a quasi 315 milioni di euro. Una bella cifra che ovviamente è stata coperta con i soldi di contribuenti italiani. Numeri che la dicono lunga sia sul valore dello Stato come biscazziere che sul bisogno che l’Italia ha di queste indispensabili partecipate pubbliche.
Come detto in precedenza da oltre un anno e mezzo esiste una legge che prevede la razionalizzazione delle società partecipate per Regioni, ex Province e Comuni. Le attività non coerenti con la loro funzione dovrebbero essere messe sul mercato e confezionate per la vendita. Qualcuno ci aveva provato a Venezia e in particolare l’ex sindaco Orsoni, ma lo scandalo Mose ha posto la parola fine a ogni tentativo di privatizzazione. Gli incidenti di percorso capitano, si sa.
In questo frangente diventa emblematica la scelta del Comune di Campione d’Italia. Nonostante la legge dica esattamente il contrario, il Comune del Canton Ticino, dal 1°gennaio 2015, è infatti diventato azionista unico della locale casa da gioco, dal precedente 46%. In altre parole i croupier sono diventati alla stregua di dipendenti pubblici.
Ma non c’è da preoccuparsi, perché lo stesso Stato che possiede quattro casinò sparsi per il Paese, lo stesso Stato che ne fa pagare le perdite ai contribuenti, con la legge di Stabilità 2016 approvata in via definitiva dal Senato, oltre a stanziare 9 milioni di euro per Campione, ha anche dichiarato guerra al gioco d’azzardo. Come? Aumentando di 2,5 punti percentuali il prelievo erariale unico sugli apparecchi con vincite in denaro, riducendo dal 74 al 70% il payout, cioè la percentuale obbligatoria di restituzione in vincita al giocatore, v ietando la pubblicità dell’azzardo nelle trasmissioni radio e tv generaliste dalle ore 7 alle 22 e prevedendo lo stanziamento di 50 milioni di euro l’anno per un Fondo per la prevenzione della ludopatia. Nessuno dubiti che lo Stato biscazziere lotti senza quartiere contro se stesso.
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