Il 17 aprile 2016 gli elettori italiani saranno chiamati ad esprimere il loro parere nell’ambito del referendum abrogativo richiesto dalle Regioni per bloccare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio riguardanti i giacimenti situati entro le 12 miglia marittime (22,2 chilometri).
Sia in caso di vittoria dei Sì che in caso di vittoria dei No, le conseguenze saranno importanti e di lunga durata.
Si parla molto nelle ultime settimane di trivellazioni, gas e petrolio, ma l’impressione, come spesso accade, è che in questo ambito la sovrainformazione si traduca in mancata informazione : “diciamo tanto per non dire nulla”. A questo punto dunque ci sembra doveroso capire alcuni aspetti di questo argomento (alquanto ostico tra l’altro) che risultano essere poco chiari a gran parte dell’opinione pubblica.
Il referendum sulle Trivelle
Come sottolineato da molti organi di stampa, per la prima volta nella storia si terrà una consultazione referendaria richiesta dalle Regioni.
Il dibattito politico non ha coinvolto solo i quesiti cui gli italiani saranno chiamati a rispondere, ma anche la data. Prima che quest’ultima venisse stabilita, in molti avevano chiesto di votare a giugno, facendo coincidere il voto con quello delle elezioni amministrative. Le motivazioni erano essenzialmente due: risparmiare tempo e denaro (circa 300 milioni secondo i calcoli) e aumentare le possibilità di raggiungimento del quorum necessario per convalidare il referendum. In base alla legge infatti dovranno recarsi alle urne almeno la metà degli aventi diritto, in caso contrario non servirà a nulla.
Gli italiani dovranno rispondere alla seguente domanda: “ Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”.
La domanda si riferisce nel dettaglio all’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come modificato dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ( la legge di Stabilità 2016).
Il suddetto articolo stabilisce infatti che “le attività di ricerca, di prosperazione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi” non siano consentite entro le 12 miglia marine, ma prevede anche la prosecuzione delle trivellazioni fino a quando il giacimento non si esaurisce.
In base a quanto previsto, gli impianti ad oggi esistenti potranno continuare a trivellare fino alla data di scadenza della concessione. Nel dettaglio la disciplina italiana prevede concessioni di durata trentennale, prorogabili per tre volte: la prima proroga è di dieci anni le altre due di cinque. Scaduti i 50 anni complessivi, le aziende hanno la possibilità di proseguire le trivellazioni, previa richiesta, fino all’esaurimento del giacimento.
La vittoria del sì bloccherà le concessioni entro le 12 miglia dalla costa italiana. Ma non da subito, bensì alla naturale scadenza dei contratti che dunque, non potranno essere ulteriormente prorogati.
Le trivellazioni in Italia
Quattro quinti del gas prodotto nel nostro Paese e un quinto del petrolio vengono estratti dal mare. Parlando del gas, quest’ultimo serve a soddisfare circa il 10% del fabbisogno nazionale.
Attualmente in Italia sono 66 le concessioni esistenti, delle quali 21 entro le 12 miglia marine. La sopravvivenza di queste ultime dipenderà dall’esito del referendum, mentre le altre 44 continueranno il loro lavoro senza essere intaccate dal voto del 17 aprile. Si tratta nel dettaglio di una concessione in Veneto, due in Emilia Romagna, una nelle Marche, due in Basilicata, tre in Puglia, cinque in Calabria e ben sette in Sicilia (Sicilia ed Emilia Romagna però non sono tra le Regioni promotrici del referendum, le altre cinque invece sì, insieme a Sardegna, Liguria, Campania e Molise).
Le conseguenze del referendum
Un aspetto fondamentale da sottolineare è che, a prescindere dal referendum, le trivellazioni oltre le 12 miglia potranno continuare ad esistere e a prosperare, così come i giacimenti sulla terraferma. In caso di vittoria dei Sì si potranno compiere nuove estrazioni e firmare nuove concessioni oltre questo limite. Per quanto riguarda invece i giacimenti entro le 12 miglia, questi ultimi potranno continuare a lavorare fino alla scadenza delle concessioni, senza possibilità di proroga. Il voto riguarderà solo gli impianti esistenti dato che la legge vieta già nuove trivellazioni così come la costruzione di nuove piattaforme.
A livello esemplificativo, saranno interessati dal risultato il giacimento Guendalina in concessione a ENI nell’Adriatico, il Gospo di Edison (ancora Adriatico), Vega di Edison in Sicilia ecc.
Ma perché si vogliono impedire le trivellazioni entro le 12 miglia? I promotori del Si (Regioni, associazioni ambientaliste, ecc.) sostengono giustamente che esse potrebbero causare rischi ambientali e sanitari rilevanti, al limite del vero e proprio disastro nel caso in cui si verifichino gravi malfunzionamenti. Altro problema potrebbe riguardare il turismo, che secondo i No-Triv potrebbe subire gravi danni da trivelle e piattaforme.
E i No? I sostenitori del No ritengono invece che se l’articolo 6 venisse abrogato, bloccando dunque la proroga delle concessioni, il mercato italiano potrebbe risentirne in maniera ingente con impatto sugli investimenti e sulle imprese (e dunque anche sull’occupazione). Il comitato dei No sostiene inoltre che continuando l’estrazione di gas e petrolio offshore, si controlla proprio l’inquinamento, evitando il transito nei porti italiani di centinaia e centinaia di petroliere.
Nonostante l’imparzialità richiesta ad un blog/servizio di informazione, da Siciliani non possiamo non schierarci sulla questione. La scelta è quindi tra economica e salute e la logica è molto semplice: “Non c’è economia senza salute!”
I motivi? Eccone dieci dal Blog di Maria Rita D’Orsogna Fisico, docente universitario, attivista ambientale:
1.Paesaggio e turismo
L’Italia è un paese densamente abitato, con un paesaggio invidiabile, variegato, fatto di colline, di mare, di boschi, di posti unici. Dove le mettiamo queste trivelle? Ovunque ti giri c’è comunità, c’è vita, c’è potenziale di bellezza, non deserto. Come si può pensare di trivellare a pochi chilometri da Venezia o da Pantelleria? Petrolizzare un territorio significa imbruttirlo, avvelenarlo, annientando quasi tutto quello che già sul territorio esiste o potrebbe esistere. E significa farlo sul lungo termine. Chi comprerà una casa con vista pozzo? Quale turista vorrà venire in Italia a vedere il mare o le colline bucherellate dalle trivelle o a respirare aria di raffineria? Fra l’altro la tutela del paesaggio è uno dei punti fondamentali della nostra Costituzione.
2.Petrolio scadente
Il petrolio presente in Italia – in generale – è scadente, in qualità ed in quantità, ed è difficile da estrarre perché posto in profondità. E’ saturo di impurità sulfuree che vanno eliminate il più vicino possibile ai punti estrattivi. Non abbiamo nel sottosuolo il petrolio dei film texani, quanto invece una sorta di melma, maleodorante, densa e corrosiva che necessita di vari trattamenti prima di arrivare ad un prodotto finale.
3. Infrastrutture invasive e rifiuti
Questo fa sì che ci sia bisogno di infrastrutture ad hoc: pozzi, centrali di desolforazione, oleodotti, strade, porti petroliferi, industrializzazione di aree che sono al momento quasi tutte agricole, boschive, turistiche. Non dimentichiamo gli abbondanti materiali di scarto prodotti dalle trivellazioni – tossici, difficili e costosi da smaltire – con tutti i business più o meno legali che ci girano attorno. E non dimentichiamo il mare, dove la ricerca di petrolio può causare spiaggiamenti di cetacei, e dove è prassi ordinaria in tutto il mondo lo scarico in acqua di rifiuti petroliferi secondo il principio “occhio non vede, cuore non duole”.
4. Inquinamento aria
Sia dai pozzi che dalle centrali di desolforazione vengono emesse sostanze nocive e dannose all’agricoltura, alle persone, agli animali. Fra questi, l’idrogeno solforato (H2S), nitrati (NOx), i composti organici volatili (VOC), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH), nanopolveri pericolose. Alcune di queste sostanze sono provatamente cancerogene e causano danni al DNA ed ai feti. Possono anche causare piogge acide, compromettere la qualità del raccolto e la salute del bestiame. Chi eseguirà i monitoraggi, chi controllerà lo stato di salute delle persone? E’ giusto far correre questi rischi ai residenti, dato che gli effetti nefasti del petrolio sulla salute umana sono noti, e da tanto tempo, nella letteratura medico-scientifica?
5. Inquinamento acqua
Nonostante le cementificazioni dei pozzi e l’utilizzo di materiale isolante negli oleodotti, tali strutture con il passare degli anni presentano cedimenti strutturali, anche lievi, dovuti al logorio, alle pressioni, allo stress meccanico. L’elevata estensione degli oleodotti, e la profondità dei pozzi, rende difficile individuare queste fessure, che possono restare aperte a lungo, inquinando l’acqua del sottosuolo e danneggiando gli ecosistemi con elevati costi di ripristino.
6. Idrogeologia e sismicità
L’Italia è a rischio sismico, con già tanti problemi di stabilità idrogeologica, di subsidenza, a cui si aggiungono in molti casi l’abusivismo e la malaedilizia. In alcuni rari casi (ma ne basta uno solo!) le ispezioni sismiche, le trivellazioni, la re-iniezione sotterranea di materiale di scarto ad alta pressione possono alterare gli equilibri sotterranei, checché ne dica qualcuno dei “tuttapostisti” accademici italiani. Come non conosciamo perfettamente la distribuzione delle falde acquifere, così non conosciamo perfettamente neanche quella delle faglie sismiche. Stuzzicare i delicati equilibri geologici può innescare terremoti, anche di magnitudine elevata. E’ già successo in Russia, in California, in Colorado.
7. Incidenti
Anche prendendo tutte le precauzioni possibili, i pozzi possono sempre avere malfunzionamenti. In Italia abbiamo avuto già esempi di scoppi o incidenti gravi con emissioni incontrollate di idrocarburi per vari giorni senza che nessuno sapesse cosa fare: nelle risaie vicino a Trecate, nei mari attorno alla piattaforma Paguro, nei campi di Policoro. Per risanare Trecate non è bastato un decennio. Non per niente in California c’è una fascia protettiva anti-trivelle di 160 chilometri da riva, e non per niente è dal 1969 che non si buca più il mare.
8. Speculatori
Molte delle ditte che intendono trivellare l’Italia sono minori, straniere, con piccoli capitali sociali. Spesso annunciano di volere fare il salto di qualità con il petrolio d’Italia perché – e lo dicono candidamente ai loro investitori – da noi le leggi sono meno severe, è facile avere i permessi, le spese di ingresso sul territorio sono basse. Saranno, queste micro ditte irlandesi, australiane, statunitensi e canadesi, capaci di gestire i controlli ambientali a regola d’arte? Ed in caso di incidenti, con i loro esigui capitali sociali, avranno le risorse per affrontare operazioni di pronto intervento, risanamento ambientale e risarcimento danni?
9. Minimi benefici
Il petrolio d’Italia non farà arricchire gli Italiani, non porterà lavoro, e tanto meno risolverà i problemi del bilancio energetico nazionale. Le royalties d’Italia sono basse, e la maggior parte di questo petrolio verrà estratto da ditte straniere, libere di vendere il greggio su mercati internazionali. E’ pura speculazione, niente più.
10. Basilicata
Ed anche se tutto fosse fatto a opera d’arte, il vero conto va fatto su tutto quello che il petrolio distruggerà, sui rischi che ci farà correre, a fronte dei suoi presunti vantaggi. In Italia abbiamo già una regione che è stata immolata al petrolio e di cui il resto d’Italia sa poco. E’ la Basilicata, che fornisce a questa nazione circa il 7% del suo fabbisogno nazionale. Tutti i problemi elencati sopra sono realtà in Basilicata: sorgenti e laghi con acqua destinate al consumo umano inquinate da idrocarburi, declino dell’agricoltura, del turismo, petrolio finanche nel miele, aumento di malattie, mancanza di lavoro, smaltimento illegale di materiali tossici, anche nei campi agricoli. E cosa ha guadagnato la Basilicata da tutto ciò? Un dato per tutti: secondo l’Istat, la Basilicata è la regione più povera d’Italia. Era la più povera prima che arrivassero i petrolieri con le loro vuote promesse di ricchezza, lo è ancora oggi.
Ma… cari professori, invece che fare buchi non sarebbe meglio coprire tutti i tetti d’Italia con un pannello fotovoltaico?
calatafimisegestanews
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